Il tema di questo articolo – gli approcci allo studio della mente e della presenza mentale in Oriente e Occidente – è presente da oltre due decenni nella sfera della cura ampiamente intesa, in numerosi programmi di ricerca nei campi delle scienze umane, delle neuroscienze e delle scienze cognitive. Tali attività, nel momento in cui sono impostate in collegamento con la meditazione, e più in generale con le vie della tradizione, costituiscono un terreno di nuove esperienze e di sviluppo nello studio della mente e dei suoi processi, e nelle forme di prevenzione e di cura olisticamente intese. In effetti, nell’attuale panorama storico e culturale, caratterizzato da una compiuta globalizzazione, i rapporti tra culture diverse sono così intensi da sfumare in una reciproca ibridazione, facendo emergere connessioni molteplici, improbabili fino a pochi decenni or sono.
L’obiettivo è quello di accennare anche alle caratteristiche dell’orientamento teorico-esperienziale alla consapevolezza del momento presente, a come possa influire sui processi mentali e sui vissuti personali di coloro che la ricercano e la praticano, e inoltre investigare sui possibili percorsi di integrazione tra modelli e punti di vista diversi tra loro.
Da alcuni anni mi sono interessato al tema delle tecniche meditative come la meditazione buddhista vipassana, meglio conosciuta come insight meditation, o mindfulness, di cui oggi molto si parla, forse anche in termini di moda. L’interesse per questi argomenti è cresciuto in me nel corso degli anni, alimentato anche da vari contesti di apprendimento e di pratica formale di yoga, meditazione e arti marziali, con finalità prevalentemente formative e culturali, a Napoli e in altre città. Mi affascina pensare che alcune discipline, nate per alleviare la sofferenza, siano praticate da millenni, e che il loro uso sia tenuto tuttora in grande considerazione, come se le attuali mappe psichiche e terapeutiche non esauriscano i bisogni e le potenzialità di cura dell’essere umano.
Oriente e Occidente in psicologia
La psicologia moderna nasce in Occidente nel secolo XIX con una impostazione scientifica, volta a costruire un sistema di pensiero omogeneo e sistematico, sul modello delle scienze fisiche e naturali. Accanto a questa, l’ottica umanistica e sociale ha portato in evidenza il problema di ridurre la coscienza al solo prodotto dell’attività cerebrale, trascurando le implicazioni culturali e sociali nella vita di ogni essere umano.
Gli attuali sviluppi vedono due impostazioni prevalenti:
* le scienze cognitive, di impostazione naturalistica, che indagano i processi mentali di conoscenza, i comportamenti e la comunicazione.
* la clinica, che interviene sul disagio psichico, con una impostazione più aperta alla complessità e alla originalità del quotidiano.
Con l’ibridazione delle culture, entrambe si mostrano oggi più o meno aperte alle tradizioni sapienziali orientali. Queste cosiddette “psicologie tradizionali” nascono come riflessioni razionali sul cammino spirituale, meditativo e contemplativo. Esse studiano ed evidenziano esperienze e riflessioni, in una sorta di empirismo filosofico razionalista, in particolare per il buddhismo. Vengono riportate mappe e descrizioni dinamiche minuziose di un cammino interiore di tipo mistico e ascetico, di cura spirituale, ma non certamente di tipo terapeutico, modernamente inteso. Qui può nascere la fecondità dell’incontro con le psicologie e psicoterapie occidentali, dal quale si può originare un modello più ricco e completo, una nuova e più completa mappa dei processi mentali, che guidi le psicologie e le terapie del futuro. In questa prospettiva, la mente, il pensiero e la coscienza non sono visti come fenomeni interni all’individuo (o alla coppia/diade), ma invece come eventi inter-individuali , collettivi e sociali. Tra le correnti più influenti di tale ricco panorama vanno ricordate la p. Culturale di J. Bruner, la p. Umanistica di A. Maslow, la p. Transpersonale di R. Assagioli, e infine la p. Positiva di M. Seligman.
La Mindfulness
Recentemente, gruppi di ricercatori in varie parti del mondo hanno innovato le modalità tradizionali dell’approccio teorico e clinico di tipo neuro-cognitivo e comportamentale, sperimentando percorsi che si richiamano alle tradizioni esperienziali e alla meditazione di matrice orientale. Tra le numerose vie di ricerca, la meditazione vipassana, o di consapevolezza, è quella più studiata e sperimentata dai ricercatori; nel mondo anglosassone è conosciuta come insight meditation, o mindfulness, contrazione quest’ultima di mindful awareness, termine che traduce la voce sati, (lingua Pali), che denomina uno attributo mentale considerato basilare in tutte le tradizioni del buddhismo, e che può essere tradotto anche con “consapevolezza a mente vuota”, “attenta consapevolezza”, “presenza mentale” (per approfondimenti, cfr. Chiesa, 2011). Esistono numerosi studi sulla descrizione delle tecniche, gli strumenti, le applicazioni terapeutiche, ma poco su come l’utilizzo di tali nuove forme di presenza mentale incidano sui processi di costruzione della propria identità, sull’incapacità ad essere se stessi nella relazione con il il proprio corpo, con il mondo ed accettarsi per quello che si è, e sulle infinite motivazioni sottese a questi comportamenti, come si sviluppi una nuova fisionomia, che caratteristiche assuma etc…
Vi sono in linea di massima due prospettive già molto avviate: 1) la prospettiva delle neuroscienze e delle scienze cognitive (approccio mindsight, di Daniel Siegel), 2) quella delle psicoterapie cognitive orientate alla mindfulness (ad esempio, il noto programma Mindfulness-Based Stress Reduction, legato alla figura di Jon Kabat-Zinn). E (sempre grosso modo) due sono gli orientamenti: un entusiasmo incondizionato e ‘ingenuo’ nei confronti delle nuove tecniche di matrice orientale, o al contrario profezie e condanne (soprattutto nel campo psicologico) per la presunta carenza di validità scientifica evidence-based. In tal modo, mi sembra che si corra il rischio di perdere di vista quello che dovrebbe rappresentare il centro della discussione e cioè l’essere umano, con le sue modalità di acquisizione del reale e di rappresentazione del mondo.
A questo proposito, vi è un ambito che in senso lato può essere definito educativo, con la finalità generale di accompagnare percorsi individuali sulla via della consapevolezza, motivati né dalla cura di patologie, né da ciò che genericamente si definisce come ricerca spirituale (Paul Ekman, programma Cultivating Emotional Balance nell’ambito di Mind and Life). Tendenzialmente sono interessato al suddetto ambito, e alle ipotesi contenute in programmi “educativi”, rivolte a persone sane (o normalmente nevrotiche) alle prese con stress e ansie, e mutuate da tecniche meditative.
Sfide per la cultura Occidentale
Nella società contemporanea vi è un’assenza della consapevolezza della natura psico-spirituale umana. Si osserva da tempo una progressiva atrofizzazione delle capacità di introspezione. Uno dei molti errori culturali di oggi sta nella cosiddetta “religione della scienza”: ciò che non si può misurare non esiste, quando invece l’affermazione corretta è che ciò che non si può misurare non rientra nell’ambito della scienza. La cultura orientale porta in dote una visione profonda dei fondamenti dell’essere e della realtà, insieme a valori antichi e universali.
D’altro canto, l’Occidente è forse giunto a un punto critico in cui ha iniziato a comprendere che il controllo tecnologico sul mondo esterno ha dei limiti, e questi limiti invitano a cercare all’interno di sé. La scienza ha cominciato a fare una riflessione critica e a vedere che la tecnologia va associata a una esplorazione dell’uso che ne facciamo. In questo momento l’Occidente si sente forse di aver troppo trascurato questo aspetto, quindi si ritorna a esplorare la vita interiore. Insieme alla tradizione spirituale, che è quella della mistica cristiana, per esempio, c’è la tradizione psicologica che ha estesamente sondato i processi della mente. Rivolgersi invece all’Oriente, significa addentrarsi in un terreno meno inquinato da una serie di ferite o di condizionamenti, che alcuni di noi sentono di aver ricevuto dall’educazione tradizionale occidentale.
“La verità è una cosa viva che non può essere fermata in una convinzione”. E il non attaccamento di cui parla il Buddha è proprio il lasciare andare tutte le convinzioni e trovarsi quindi di fronte alla vita, alla realtà, al mistero della morte, con una mente che non presume di avere già, di sapere già la risposta. Questo è l’inizio del cammino, e anche la fine, perché, nel momento in cui noi siamo di fronte alla verità senza una qualsiasi opinione, a quel punto forse si manifesta un’altra capacità di conoscere, che chiamano, per esempio, i buddhisti, sapienza, saggezza, che altrimenti non può venire, perché la nostra mente è troppo occupata, affastellata di convinzioni, di concetti. In questo senso, la via della meditazione è intesa come un percorso dove (più che apprendere, accumulare conoscenza) lasciare andare tutto ciò che crediamo di sapere, e cominciare con una mente aperta e fresca a vedere quello che c’è. Infatti, se esiste questa dimensione, è sempre davanti ai nostri occhi, anche se non la vediamo. Il lavoro meditativo viene fatto attraverso uno strumento che è la consapevolezza intuitiva: si aumenta la capacità di essere presenti, qui e ora, alla vita, anziché, come spesso ci accade, perderci nei ricordi del passato e nelle anticipazioni del futuro, senza più accorgerci di dove stiamo, di che cosa stiamo facendo e di chi siamo. Allora la pratica meditativa è proprio la capacità di calmare la mente, al punto che in certi momenti la mente diventa stabile come la fiamma di una candela in una stanza senza vento, per indicare questa caratteristica meditativa, cioè la calma, quel riposo sveglio che ci permette di guardare. Ma l’aspetto più importante è guardare attraverso la calma. Se ho un’acqua agitata che solleva la sabbia, non posso vedere il fondo. Per vedere il fondo devo aspettare che l’acqua si calmi e si depositi la sabbia, ma poi devo guardare. Ecco, questo guardare, che è la consapevolezza, è considerato qualcosa di importantissimo perché ha la capacità di trasformare l’energia anche delle emozioni negative. Infine, la via meditativa è una terza via tra non reprimere e non scaricare le emozioni. Essa consiste nell’osservare le emozioni e nel sentirle in vari modi: fisicamente, in che punto del corpo le sento, osservare che pensieri evocano, lasciarle consapevolmente sorgere-manifestarsi-esaurirsi.
Franco Bruno