Nell’attuale panorama storico e culturale, caratterizzato da una compiuta globalizzazione, i rapporti tra culture diverse sono così intensi da sfumare in una reciproca ibridazione, facendo emergere connessioni molteplici, improbabili fino a pochi decenni or sono. Un esempio di ciò può essere individuato nel dialogo tra le scienze naturali e le tradizioni del pensiero orientale, come ad esempio quelle buddhiste, che hanno, secondo modalità proprie, costantemente indicato l’importanza delle interdipendenze tra fenomeni e soggetti, secondo una continuità tra corpo, mente e linguaggio.
Il tema di questo articolo – gli approcci più recenti allo studio della presenza mentale – è presente da oltre due decenni nella sfera dell’educazione e della cura ampiamente intese, e in numerosi programmi di ricerca nei campi delle scienze umane, delle neuroscienze e delle scienze cognitive. Tali attività, nel momento in cui sono impostate in collegamento con fonti e tradizioni diverse, costituiscono un terreno di nuove esperienze e di sviluppo nello studio della mente e dei suoi processi, e nelle forme di prevenzione e di cura olisticamente intese (Tomassini, 2012). L’obiettivo è quello di tracciare le caratteristiche dell’orientamento teorico-esperienziale alla mindfulness, o consapevolezza del momento presente, a come possa influire sui processi mentali e sui vissuti personali di coloro che la ricercano e la praticano, e inoltre investigare sui possibili percorsi di integrazione e cura, attraverso modelli e punti di vista diversi.
Cenni Storici
La forma più studiata di meditazione orientale può essere considerata la meditazione vipassana, che nell’antica lingua indiana Pali significa: comprendere come le cose sono realmente (Gunaratana, 2002). Il testo antico che la insegna è il “Discorso sui fondamenti della consapevolezza” (Satipatthana Sutra), attribuito a Siddharta Gautama, il Buddha, e codificato nel III secolo a.C. (Hanh, 1992). Essa è anche la forma più semplice nei suoi elementi, che consistono in: ridurre al minimo i movimenti del corpo, col busto eretto, osservando consapevolmente tutto ciò che sorge alla mente momento per momento, ricevendolo e, così come è affiorato, lasciandolo andare. Da qui dovrebbe emergere un senso di accresciuta consapevolezza sulla transitorietà degli stati mentali e quindi dell’impermanenza (anatta, in Pali) della realtà stessa, così come viene intesa e percepita. Tale evidenza condurrebbe alla verità profonda del mondo fenomenico e alla conseguente liberazione dai fondamenti della sofferenza pervasiva. I primi versi del Discorso su tali fondamenti teorici, studiato, praticato e trasmesso con cura da maestro a discepolo per circa duemilacinquecento anni, possono tradursi con:
“Vi è una via meravigliosa per aiutare gli esseri viventi a realizzare la purificazione, trascendere il dolore e la tristezza, porre fine all’ansia e alla sofferenza, percorrere il retto sentiero e realizzare il risveglio” (Satipatthana Sutra, in Hahn, 1992).
La meditazione vipassana, o di consapevolezza, è anche quella più studiata e sperimentata dai ricercatori; nel mondo anglosassone è conosciuta come insight meditation, o mindfulness, contrazione quest’ultima di mindful awareness, termine che traduce la voce sati, (lingua Pali), che denomina uno attributo mentale considerato basilare in tutte le tradizioni del buddhismo, e che può essere tradotto anche con “consapevolezza a mente vuota”, “attenta consapevolezza”, “presenza mentale” (per approfondimenti, cfr. Chiesa, 2011).
Un altro significato del termine è quello di “ricordare in modo consapevole”, con riferimento particolare alle conseguenze dei propri pensieri, parole e azioni, per se stessi e per gli altri. Il fine di tutto ciò è la riduzione della sofferenza legata a un’errata comprensione della realtà, ottenuta grazie alla saggezza (prajna), la maggiore chiarezza su ciò che è salutare e ciò che è nocivo: “La conoscenza delle cause, condizioni e implicazioni dei processi, dei contenuti e delle conseguenze delle proprie esperienze nei termini delle loro conseguenze etiche e del loro accordarsi o meno con le proprie intenzioni” (Chiesa, 2011 p. 8). Nella visione buddhista, e non solo in essa, la presenza mentale, l’etica e la saggezza sono profondamente legate, e si influenzano vicendevolmente all’interno di un vero e proprio sistema di vita, delineato come un cammino verso la cessazione della sofferenza globalmente intesa (Hahn, 1993; Gunaratana, 2002).
La Mindfulness e la cura di sé
Recentemente, gruppi di ricercatori in varie parti del mondo hanno innovato le modalità tipiche dell’approccio teorico e clinico cognitivo-comportamentale, sperimentando percorsi che si richiamano alle forme e alle tradizioni esperienziali di meditazione di matrice orientale. Ma come agisce la meditazione di consapevolezza? Quale contributo può dare alla protezione e al recupero nei confronti del disagio psicologico? In estrema sintesi, il fuoco della metodologia può essere trovato, come si dirà meglio più avanti, nel richiamo agli scopi vitali e agli obiettivi della persona, alla sua libertà di scelta nell’azione, alla sua disponibilità a vivere fino in fondo la propria esperienza nel contesto quotidiano, accettandone anche i lati dolorosi, senza l’urgenza di tentare di cambiarli.
In generale, il metodo applicato alla prospettiva mindfulness non pone l’enfasi sul contenuto dell’esperienza; va invece a focalizzarsi sull’impatto e sulla risposta a pensieri, affetti e sensazioni, suggerendo di allontanarsi cognitivamente dalle inefficaci strategie di evitamento esperienziale. Quest’orientamento generale di accettazione dell’esperienza interna ed esterna, tramite un processo attivo di consapevolezza sul presente, può sostenere strategie maggiormente efficaci di contatto con pensieri, immagini, sensazioni, affetti (ma non di fusione cognitiva, dove invece ci s’identifica con essi).
Le forme d’intervento basate su accettazione e impegno (DBT e ACT) sostengono un orientamento attivo e adattivo agli eventi critici e stressanti, evidenziando la possibilità di un potenziamento del processo di regolazione delle emozioni e la possibilità di migliorare la capacità di auto-controllo e di adattamento all’ambiente. Altri approcci più direttamente mindfulness-based (MBRS e MBCT) sembrano agire sull’aspetto fondamentale del ripetersi dei pensieri, sulla riduzione dell’intensità delle ruminazioni indotti da ansia e depressione, sulle cognizioni e condotte ossessive (Williams, 2010).
I metodi di tipo cognitivo-comportamentali (CBT) affrontano le problematiche di ruminazioni ed esagerazioni catastrofiche riguardo a esiti infausti di sintomi, includendo tecniche attive di coping, con uso della dialettica e inviti a distogliere l’attenzione da esse. Tuttavia, alcuni dati mostrano che queste modalità frequentemente non hanno successo: soprattutto se lo stimolo da ignorare è forte, il risultato è un rafforzamento della relazione stimolo-emozione (Hamilton, et. al., 2006). Al contrario, l’approccio al distacco della mindfulness è quello di non rifiutare, ma di “sedere accanto” al dolore, riconoscendo la sua diversa natura rispetto a pensieri ed emozioni. In maniera originale rispetto alle diverse forme di rilassamento e di meditazione, i principi e l’orientamento mindfulness-based spostano il fuoco dal problema al momento presente: “è nel momento presente che siamo immersi, non nel problema” (Kabat-Zinn, 1990). L’abilità nel dirigere e mantenere l’attenzione a valori e obiettivi, momento per momento, senza rimuginare su dolori e fallimenti, probabilmente risulta cruciale per mantenere un certo livello di organizzazione positiva dell’esperienza, anche in presenza di traumi e di malattie (Hamilton, et. al., 2006).
Valutando il costrutto in un’ottica essenzialmente funzionale e contestuale, i riscontri appaiono positivi in una varietà di diagnosi e popolazioni, generali e cliniche, e ciò avviene poiché molti indici globali, come il livello di apertura esperienziale e la capacità di svincolarsi dai pensieri disturbanti, appaiono migliorati (Segal, et. al., 2002). Va ricordato infine che l’approccio alla mindfulness richiede una forma di pratica abbastanza rigorosa, e un impegno di tempo congruo: si ritiene che una frequenza quotidiana sia necessaria per raggiungere risultati positivi, anche se tale aspetto è stato di fatto poco approfondito sperimentalmente (Kabat-Zinn, 1990).
Conclusioni
La pratica della mindfulness promuove l’apertura di una mente riflessiva, consapevole, fiduciosa e ricettiva verso nuove esperienze: contribuisce ad attenuare la tensione provocata dal sentirsi costretti a raggiungere sempre e comunque un risultato, e soprattutto a ridurre le forme inefficaci e dispendiose di evitamento e di controllo rigido e automatico, con impatti sull’organismo e sul comportamento (Giommi, in Segal et al., 2002). Le evidenze attuali suggeriscono inoltre l’esistenza di un’associazione inversa tra mindfulness e condotte di evitamento, e che gli interventi mindfulness-based possono ridurre le strategie di coping in maniera analoga, se non migliore, rispetto ad altri approcci terapeutici (Chiesa, et. al., 2014).
Infine, a partire da un adeguato apprezzamento di sé e dei propri talenti, si può giungere a sperimentare connessione, serenità, accettazione dei propri limiti, che si dispiega nella capacità di prendersi cura di se stessi. La mindfulness può rivelarsi efficace per la regolazione emozionale e dell’attenzione, e per la costruzione di una prospettiva mentale che miri ad apprezzare il momento presente e le sue implicazioni, e a integrare ogni aspetto della propria esperienza, in una valutazione più ricca, estesa e consapevole del mondo e dell’esistenza (Lutz et. al., 2008).
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