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Mindfulness

Emozioni e Resilienza

Le emozioni non nascono dal nulla, sono il risultato di come si valutano gli stimoli dell’ambiente in relazione a sé, ed a come si risponde a essi; a loro volta, le risposte condizionano valutazioni e risposte successive, in un processo cognitivo-affettivo-ambientale i cui termini si influenzano reciprocamente (Costantino et. al. 2009). Così come un individuo può giungere a “crearsi” gli eventi stressanti (interni) che conducono a uno stato di disagio, lo stesso può impegnarsi nel dare spazio all’intervento di mediatori che possono portarlo a un cambiamento psicologico. I mediatori psicologici giocano un ruolo fondamentale nel determinare le reazioni allo stress; per questo motivo, ogni intervento che abbia l’obiettivo di rafforzare le competenze di fronte alle situazioni problematiche, condurrà ad incrementare, a fronte di compiti sempre più complessi, componenti cruciali come la capacità di empowerment, il locus of control interno, il livello di auto-efficacia e di capacità di scelta (Malaguti, 2005).
I principali mediatori psicologici possono essere individuati nelle aspirazioni, nei valori, nelle abilità personali, nel senso d’identità stabile. Un’attenzione particolare merita la dimensione di senso, nello specifico il senso di coerenza, considerata quale epicentro di tutto il complesso sistema di risposte psicologiche a disposizione dell’individuo adulto per far fronte agli eventi di vita stressanti (Magrin, M.E., et al., 2006). Come si illustrerà di seguito, molte tra queste risorse interiori di resilienza e di rivisitazione della situazione presente possono essere influenzate positivamente attraverso pratiche che, come la mindfulness, accrescono la capacità autoriflessiva e la risposta consapevole. La sintesi personale tra accettazione e cambiamento è promossa da tecniche che fanno argine all’auto-svalutazione della persona e che, verosimilmente, portano all’acquisizione di nuove capacità di adattamento e di crescita.
Nell’ambito della psicologia contemporanea, a partire della fine del secolo scorso si è sviluppata la prospettiva della psicologia positiva, che mira a incentivare le potenzialità e le risorse personali della persona, in luogo del porre l’attenzione soltanto ai suoi deficit (Seligman, et. al., 2000). Inoltre, un grande rilievo viene dato alle relazioni interpersonali e ai contesti di vita. Essa ha come obiettivo un sano sviluppo personale e, pur non negando le difficoltà, gli ostacoli e le sofferenze, pone l’accento sulle capacità di superarli e sviluppare le parti sane della persona, a tutte le età. Infatti, la psicologia non si deve occupare soltanto del disagio, della sofferenza e del disordine mentale, ma anche di tracciare una mappa esauriente dell’esistenza e delle relazioni umane. La psicologia positiva si propone quindi di focalizzare l’attenzione sulle competenze, le motivazioni, i punti di forza e di eccellenza.
A livello individuale sono considerati aspetti come l’apertura verso il futuro, la flessibilità e la capacità relazionale, la perseveranza, la sensibilità estetica, la saggezza. A livello interpersonale e sociale, sono in gioco processi connessi con l’altruismo, la tolleranza, il senso del dovere e la responsabilità.
Nel filone della psicologia positiva, ma anche in altri approcci come la psicologia umanistica e la psicologia di comunità, negli ultimi anni ha ricevuto crescente attenzione il costrutto di resilienza (dall’inglese resilience), termine mutuato dalla scienza dei materiali, che indica la capacità di resistere allo stress, e insieme di esprimere forme di adattamento funzionali nelle condizioni avverse. Si tratta della capacità delle persone di far fronte in modo soddisfacente alle avversità, e di uscirne rafforzati. Questa competenza è rivolta sia all’integrità personale, sia a contrastare e ridurre gli esiti affettivi ed emotivi in occasione di eventi traumatici (lutti, incidenti gravi) o situazioni difficili e penose, soprattutto se prolungate nel tempo (disabilità, dolori cronici). Conoscere i meccanismi che permettono di prevenire e superare più agevolmente queste difficoltà è un passo nella direzione di poterne far uso quando necessario (Cyrulnik, et al., 2005). Il fronteggiamento e la gestione delle situazioni fa parte dei molteplici compiti di sviluppo di un essere umano, il quale, fin dall’infanzia e soprattutto in momenti cruciali di passaggio, si trova a interagire con richieste di mettere in opera, di volta in volta, condotte e atteggiamenti secondo gli standard personali e sociali della propria cultura.
Il concetto di resilienza si lega a quello di adattabilità attiva, determinata schematicamente dell’interazione tra due ordini di fattori, che si presentano sempre in combinazione tra loro: da un lato, i fattori di rischio, dall’altro i fattori di protezione, presenti entrambi a livello individuale e nell’ambiente. In generale, essa è indicata come una capacità molto variegata, in cui possono essere inquadrate aree di efficacia crescente, (passando da “evitare”, ad “affrontare”, a “superare”), che consentono all’individuo di vivere al meglio delle proprie possibilità le diverse situazioni, di ottimizzare le proprie risorse e di ottenere sostegno dall’interazione sociale e ambientale.
Nel buddhismo classico lo sviluppo della consapevolezza nella propria vita è sostanzialmente associato con uno sviluppo etico, consistente in una “protezione” verso se stessi e poi verso gli altri (in termini di pazienza, rifiuto della violenza, gentilezza e compassione). Tale sviluppo etico, che nasce anche dalla consapevolezza di un comune destino, e quindi di un’intensa interdipendenza tra tutti gli esseri (umani e non solo) è essenziale nell’orientamento della condotta, fino alla distinzione tra piacevole/utile, da un lato, e spiacevole/dannoso, dall’altro. In altre parole, dal punto di vista della tradizione, un certo grado di sviluppo etico è ritenuto necessario per la maturazione di una pratica di mindfulness non sterile, ma feconda per l’esperienza umana (Kramer, 2008).
Devono quindi essere prese in considerazioni alcune importanti pre-condizioni: in accordo con la prospettiva classica, tale concetto non può essere separato da altre qualità come la coltivazione della conoscenza, le emozioni positive e le condotte costruite sulla ricerca etica. In effetti, attenzione e consapevolezza non sono peculiari solo della mindfulness, ma fanno parte di qualunque stato mentale discriminativo: anche un cecchino è attento al momento presente e consapevole del suo stato!
In questo senso gli approcci alla mindfulness sono pratiche di resilienza, forme di allenamento personale a un diverso rapporto con i fenomeni e i contenuti dell’esperienza. In queste esperienze l’obiettivo non è resistere o tentare di riconquistare una mitica forma originaria ma, al contrario, è riuscire a vedere con più chiarezza il divenire di ogni forma prodotta dalla mente nell’interazione con il mondo.
La resilienza, da questo punto di vista, è l’esito di un processo cumulativo generato mediante la familiarità con la mente e i suoi fenomeni. Un processo, governato da una posizione soggettiva che non si sottrae all’incertezza e alla precarietà intrinseca dell’esperienza umana, ma anzi costantemente aperto ad esse. Il punto di partenza per tale risultato è una sorta di umiltà, di disposizione alla vita in cui il soggetto assume in pieno i propri limiti e vuole comprendere le proprie risorse. La pratica della mindfulness come familiarizzazione con le pulsazioni della mente-corpo, può prolungarsi nella vita, al di fuori della pratica, come capacità riflessiva di ristrutturare flessibilmente e con continuità i rapporti con il mondo, in termini sia cognitivi sia somato-emozionali. Una capacità riflessiva che può estendersi ai fatti della vita, anche duri e sgradevoli, perseguendo una resilienza che ci permetta non solo di “rimbalzare” o “galleggiare” rispetto alle avversità, ma soprattutto di saperle comprendere e trasformare.

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Mindfulness

Meditare camminando

Diversamente da quando camminiamo per andare da qualche parte, per fare attività fisica o per il semplice di passeggiare, si potrebbe usare tale attività fisica come supporto alla meditazione. Meditare camminando può insegnare a costruire un nuovo rapporto con noi stessi.

La camminata meditativa non ha nè una meta nè uno scopo preciso; va assaporata nel presente, nel qui e nell’ora.

Mettere un piede davanti l’altro significa entrare in sintonia profonda con il presente, il luogo in cui tutto accade ed in cui ogni cosa è perfetta. Significa inoltre recuperare una certa forma di semplicità, virtù fondamentale per accedere alla parte più profonda di sè.

Camminare significa anche coinvolgere il proprio corpo in questa ricerca e scegliere di dedicare tempo a conoscerlo. Significa apprezzare la gioia della lentezza e del raccoglimento. Significa andare da qualche parte, ma anche essere in cammino. Significa aprirsi al mondo e accettare le cose così come sono, senza filtri. Significa concedersi un’occasione impareggiabile per scoprire la natura e lasciarsi ispirare da essa.

Camminare con consapevolezza significa, infine, andare alla ricerca di se stessi. Scoprire la propria vera natura. E’ come partire per un pellegrinaggio alla riconquista della propria anima.

Gli antichi Greci insegnavano passeggiando; i monaci, nei chiostri dei monasteri associavano (e continuano ad associare) la preghiera all’atto di camminare. Da sempre, pellegrinaggi e lunghe camminate inducono gli uomini alla meditazione. Poeti e artisti hanno sempre amato camminare, perdersi nella semplicità di questo gesto capace di riempire il corpo e liberare la mente. Kant adorava passeggiare nei giardini di Konigsberg; il giovane Rousseau non esitava a spostarsi a piedi, da Annecy a Torino, da Parigi a Chambéry. Nietzsche amava le escursioni sulle alte montagne dell’Engadina, mentre uno dei miei autori americani preferiti, Thoreau, usciva ogni giorno per andare a fare una passeggiata nei boschi.

Sono assolutamente convinto che tutti, ciascuno di voi, nella sua vita abbia avuto l’esigenza di interrompere ciò che stava facendo per poter uscire all’aria aperta e camminare. Nei paesi anglofoni c’è una frase idiomatica che rappresenta anche figurativamente questo stato d’animo: “take a walk”, ovvero uscire a farsi una passeggiata.

Ogni essere umano muove i primi passi decidendo deliberatamente di abbandonare la comoda culla o la calda copertina per iniziare un processo di ricerca esplorazione e apprendimento, faticoso e complesso processo cognitivo che risulterà essenziale per il pieno sviluppo delle nostre attività fisiche e mentali.

Da azione goffa e difficoltosa diventa in età adulta un vero e proprio automatismo, un gesto così naturale che non nessuno si chiede più “quale piede devo muovere?”. Questo movimento perfettamente automatico richiede solo una piccolissima parte della nostra attenzione, quanto basta per badare a dove stiamo appoggiando i piedi. E’ per questo che la camminata può rivelarsi un sostegno ideale per la meditazione. Proprio così: non è necessario essere immobili, si può benissimo meditare anche in movimento!

La maggior parte delle volte, tuttavia, ci mettiamo in cammino spinti da un obiettivo preciso e dalla volontà di arrivare da qualche parte e quindi non riusciamo ad apprezzare ciò che il presente ha da offrirci nell’istante in cui compiamo ogni singolo passo.

E se invece provassimo a camminare nel più semplice dei modi? A camminare per il semplice piacere di farlo concentrandoci sui nostri movimenti? Davanti a noi potrebbe aprirsi una nuova strada, un meraviglioso percorso verso la meditazione! Passo dopo passo, potremmo scoprire una moltitudine di sensazioni rimaste finora sepolte sotto il peso delle nostre agende sempre troppo cariche di impegni.

Del resto, riuscirci è facilissimo: dovremo soltanto dimenticare gli altri obiettivi e limitarci a camminare. Camminare e basta, per accrescere la nostra consapevolezza e scoprire che, più della meta, ciò che conta è il cammino. 

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Mindfulness Recensioni

La mindfulness come strumento per ridurre lo stress

Lo stress cronico è causa di modificazioni neuronali che rinforzano i circuiti dello stress. La pratica della mindfulness è  uno strumento psicoeducativo essenziale per la riduzione dello stress. Attraverso i protocolli mindfulness-based si impara a non alimentarlo. Un percorso di otto settimane insegna pratiche meditative per riuscire a relazionarsi alla realtà in modo differente. Il risultato, se la pratica è costante, è di abbassare i livelli di allarme e di ansia, con benefici per il sistema immunitario e cardiocircolatorio.

Tutto questo funziona, a patto che non approcciamo la pratica della mindfulness come uno stressor. Può succedere che le persone inizino un percorso per la riduzione dello stress al culmine di un periodo faticoso. Schiacciate dalla fatica e da un senso di non farcela più ad affrontare tutto (casa, lavoro, figli, partner).

La mindfulness si propone come uno strumento per uscire dal circolo vizioso dello stress. Salvo essere inserita in una lista di cose-da-fare. In una giornata piena di impegni, può essere concretamente difficile trovare uno spazio per sedersi a meditare per 20-30 minuti. Le cose da fare sono tante, con tragitti di ore  nel traffico cittadino. Attività proprie e degli altri membri della famiglia. Lavori da consegnare.

Meditare può sembrare una perdita di tempo. C’è un’urgenza di stare meglio, ma non si è disposti a cambiare nulla dell’organizzazione della propria giornata.  Pensare di ottenere rapidamente risultati per ridurre lo stress significa aumentare lo stress!  Se ci avviciniamo alla pratica pensando “devo praticare”, presto svilupperemo avversione e non inizieremo mai veramente a meditare.  Per praticare la consapevolezza,  è necessario  sostenere la  nostra motivazione con senso di responsabilità. Scegliamo di coltivare la consapevolezza e il nostro benessere, mettendo un “voglio praticare” al posto di “devo praticare”.

Ciò che funziona è fermarsi, rallentare, e fidarsi della pratica. Darsi il permesso di non dover essere sempre efficienti e produttivi.

Il being mode

Meditare significa semplicemente essere. Non c’è niente da fare. Nessun risultato da ottenere. Solo sedersi ed osservare la mente secondo il being mode di cui parla Kabat-Zinn. Nella modalità dell’essere (being mode) non c’è nessuna attività produttiva. L’unica cosa da fare è essere pienamente presente nel qui ed ora. Le pause che ci ritagliamo per meditare ci educano a lasciar andare le cose da fare, a lasciar andare i problemi e le preoccupazioni.  E anche lasciar andare la fretta, le aspettative persino sugli effetti della pratica!

Questo significa essere disposti a rivedere le proprie priorità. Ci sono cose importanti nelle nostre vite da cui non possiamo prescindere. Ma possiamo decidere quanto tempo dedicargli. E il nostro benessere, che posto ha? E’ importante prendercene cura? Quanto tempo vogliamo dedicare alla cura di noi stessi?

Scrive Corrado Pensa  a proposito della pratica meditativa:

Di solito l’abitudine alla reattività porta a chiedersi quando si cesserà di soffrire. In quel caso abbiamo già rinunciato alla comprensione, perchè dopo aver detto che c’è sofferenza ci chiudiamo subito in un atteggiamento di avversione.

Comprensione vuol dire invece portare la consapevolezza non giudicante sulla sofferenza, al fine di comprendere in maniera viva e immediata le sue cause. E per raggiungere tale scopo abbiamo bisogno di addestramento, e la meditazione è la via principale.

(da Il silenzio tra due onde )

L’unica urgenza che ha senso, nell’approcciare la mindfulness, è quella intesa come importanza del prendersi cura di sè.

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Mindfulness

Le origini della mindfulness

L’esperienza della mindfulness elaborata da Kabat- Zinn inizia nel 1979. Biologo presso la School of Medicine dell’Università del Massachusetts, Kabat-Zinn sviluppa un protocollo per introdurre la meditazione come intervento di supporto in contesti clinici .

Praticante di yoga e meditazione vipassana, Kabat-Zinn arriva a sviluppare il protocollo MBSR come strumento in contesti clinici, partendo dall’esperienza personale di come la pratica della meditazione influenza la nostra relazione con il dolore, col disagio e con lo stress.

La mindfulness e i protocolli mindfulness-based entrano a far parte della cosiddetta medicina comportamentale o medicina integrativa. A partire dagli anni ’90, il programma MBSR viene adottato in oltre 240 cliniche ed ospedali in USA ed in Nord Europa.  L’ampia diffusione del primo libro divulgativo di Kabat-Zinn, “Vivere momento per momento”, e la partecipazione ad un programma televisivo molto seguito (Healing and the Mind) , rendono il protocollo MBSR uno strumento molto conosciuto ed applicato.

Ma il punto di forza del protocollo, a parte la grande popolarità mass-mediatica, è il fatto che Kabat-Zinn e la sua equipe ne hanno studiato scientificamente l’efficacia sin dall’inizio della sperimentazione. Esistono moltissimi studi scientifici a sostegno dell’efficacia della mindfulness e del protocollo, nella riduzione dello stress e nella capacità di stabilire un contatto diverso col proprio corpo.

I pazienti che soffrono di dolori cronici sono i primi ad entrare nel programma MBSR elaborato da Kabat-Zinn. In una condizione cronica, la pratica della mindfulness si rivela uno strumento efficace per modificare la relazione con ciò che sentiamo e viviamo. La meditazione è quindi un intervento di gestione di autoregolazione dello stress,  che incide significativamente sulla risposta agli eventi. Davanti ad uno stimolo, seppure spiacevole e doloroso, si impara a liberare uno spazio di osservazione, che ci consente di elaborare una risposta consapevole. Diventa così possibile gestire il dolore e la sofferenza, anzichè subire passivamente.

Il protocollo MBSR viene oggi applicato ad un gran numero di patologie mediche: patologie psicosomatiche, cardiache, dolore cronico, fino alle sindromi cliniche di disagio mentale come i disturbi d’ansia , depressione e disturbi alimentari.L’efficacia del protocollo MBSR ne favorisce la diffusione e l’applicazione anche in contesti non clinici: in campo educativo e riabilitativo, in campo organizzativo e sportivo.

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Mindfulness Recensioni

Riflessioni su: Al di là del pensiero attraverso il pensiero di Segal, Williams, Teasdale

Da alcuni decenni è evidente la significativa influenza che le pratiche basate sulla consapevolezza e sull’accettazione hanno avuto sullo sviluppo delle terapie cognitivo-comportamentali. In questo testo si fa riferimento al rapporto fra la psicologia in ambito congnitivista e l’approccio alle pratiche di meditazione di origine buddhista, chiamate mindfulness nel mondo anglosassone. Il termine “Mindfulness” è stato usato come sinonimo di una varietà di pratiche, ampiamente derivate dal corpus dottrinale e esperienziale di matrice buddhista.
Il termine originario significa consapevolezza (sati, in lingua Pali), e può essere definito come attenzione focalizzata sul momento presente, accettazione consapevole e memoria della propria intenzione. Pur basandosi su qualità umane naturali, la mindfulness comporta anche l’accesso a una modalità di prestare attenzione che è diversa da quella che tipicamente le persone prestano durante il normale flusso della vita quotidiana. Si tratta del metodo insegnato dalla tradizione per entrare in contatto in modo diretto con la propria mente. Essa implica il coltivare e l’accedere a una modalità intenzionale dell’esistenza.
Il termine inglese è entrato nel linguaggio psicologico occidentale in maniera prominente dopo che il dott. Jon Kabat-Zinn ha promosso per primo questo orientamento, introducendo fin dagli anni ‘80 queste pratiche negli ospedali, ma anche nelle carceri e in altri ambienti. La sua figura è assai nota, ha lavorato al MIT con diversi premi Nobel, è una persona accreditata che ha autorevolmente promosso un confronto fra la psicologia occidentale e le tradizioni orientali.
Venendo al tema principale del libro, l’opera di tre illustri scienziati cognitivisti che hanno seguito per anni il lavoro di Kabat-Zinn, affronta il tema della depressione di origine ansiosa, che è oggi una delle sindromi più comuni. Ora, nell’ambito delle prospettive attuali del cognitivismo, influenzate dal movimento della mindfulness, si inizia a ritenere che una delle cause della depressione ansiosa sia il pensiero automatico, ovvero il pensiero ripetitivo e di tipo ansioso. Un’utile pratica terapeutica appare essere quella di distanziarsi da questo tipo di pensieri, nel senso di osservarli come eventi creati dalla mente, anziché come eventi causati dalla realtà. Questo tema è di grande importanza, perché oggi la depressione ansiosa è una delle sindromi più diffuse. Comprendere che all’interno della depressione ansiosa, e soprattutto del suo mantenimento, vi siano i pensieri automatici, e comprendere che la pratica della mindfulness agisce esattamente sui pensieri automatici, riducendoli, è una porta di ingresso a nuove possibilità insperate.
Secondo il cognitivismo classico (ad esempio, T. Beck e A. Ellis), la depressione è causata da convinzioni disfunzionali, per cui l’obiettivo era stato individuato nel cambiamento di queste convinzioni dannose. Oggi, grazie all’ibridazione con le pratiche meditative, ci si rende conto che non è tanto importante cambiare le nostre convinzioni, (queste possono anche essere mantenute), ma l’importante è che non si dia loro eccessivo valore, che le riconosciamo cioè come eventi generati dal nostro pensiero, anziché cadere nell’inganno che siano fenomeni collegati alla realtà. L’idea forte è che il centro della salute mentale è la capacità di disidentificazione: il cambiamento non riguarda tanto le parti interne (pensieri e emozioni), ma piuttosto il rapporto che la nostra capacità razionale e di governo ha con i nostri pensieri e con le nostre emozioni. In questo senso l’adulto che è dentro di noi assume il ruolo principale.
Il ripetuto movimento di distanziamento, attraverso la consapevolezza non discorsiva, da ciò che crediamo reale è il fondamento della cura (pag. 40).
Per comprendere cosa sia la consapevolezza non discorsiva ci riferiamo a un autore, Corrado Pensa, insegnante di meditazione fra i più conosciuti in Italia. Egli afferma che tutti noi siamo soggetti a una fascinazione indiscriminata per l’attività mentale, per il pensiero. Ci sentiamo a posto solo quando la mente pensa molto, non importa cosa, non importa come; è il cosiddetto discorrere mentale. In secondo luogo, ci aspettiamo che la soluzione di tutto venga dal pensare, dal leggere e dal parlare. E’ una specie di fede cieca, di abbandono a un presunto potere magico del pensare e ripensare, una cognizione compulsiva o proliferazione mentale, che si accompagna a forme giudicanti e successive reazioni emozionali di avvicinamento (attaccamento) e di allontanamento (avversione). Siamo davanti a uno dei legami più forti e radicati: l’attaccamento alla concettualizzazione e alla verbalizzazione, la dipendenza dall’incessante discorrere mentale, con l’importante conseguenza di una diffidenza per tutto ciò che esula dalla discorsività. Una delle nostre fondamentali ossessioni è il pensiero discorsivo, mentre la capacità di rapportarsi alla realtà mediante facoltà diverse dai concetti, è considerata appannaggio di bambini e animali.
In realtà, la capacità di investire gli oggetti della consapevolezza di una osservazione silenziosa, benevola e non giudicante, è presente in chiunque e può essere alimentata, malgrado non sia fatto quasi mai.
La pratica assidua della pura consapevolezza (mindfulness, sati) vuole coltivare importanti qualità dell’umana natura. Innanzitutto, la benevolenza incondizionata (metta), che consiste in una relazione amichevole verso se stessi e verso gli altri, in un rapporto non difensivo, non diffidente, verso tutta la realtà. Ciò ha immediate conseguenze etiche, ma tale approccio comportamentale può maturare spontaneamente, senza la forzatura di imperativi morali che si infrangono contro la resistenza delle strutture egoiche del pensiero.
È molto probabile che la qualità dell’attenzione fosse un aspetto integrante della coltivazione di un pensiero razionale, di una prospettiva equilibrata, saggezza e compassione tipici dello stile socratico e della civiltà greca antica. Nel corso del tempo e attraverso le culture, queste note inerenti diversi orientamenti, introducono aspetti, che potrebbero essere approfonditi, della comune identità umana.

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Riflessioni su: Mindfulness relazionale di Gregory Kramer

In questo testo l’autore, esperto insegnante di meditazione secondo la tradizione buddhista Theravada, sviluppa ampiamente il tema degli aspetti interpersonali delle pratiche meditative secondo la prospettiva della mindfulness, che negli ultimi decenni si sta diffondendo, e che si arricchisce progressivamente di applicazioni in campo clinico e sociale.
Mindfulness è la traduzione inglese del termine sati, che in lingua pali significa consapevolezza. Il termine è stato impiegato per denominare una serie di metodologie e di pratiche, a partire dall’importante protocollo di medicina complementare MBSR di Jon Kabat-Zinn, per la riduzione dello stress.
Ricco di numerosi esempi concreti, il libro segue la matrice degli insegnamenti tradizionali, adattandoli al contesto occidentale, e portando l’attenzione sugli innumerevoli aspetti del vivere quotidiano in relazione, che costituisce il vero banco di prova dell’equilibrio personale.
Le interazioni sociali possono essere viste anche dal punto di vista dell’individuo e delle dinamiche interne, ma la gran parte degli automatismi prodotti da influenza sociale e spinte culturali è meglio evidenziata da un’impostazione relazionale e sistemica.
Al cuore dell’elaborazione di Kramer vi è il cosiddetto insight dialogue (dialogo di consapevolezza) che si esplicita nel prestare attenzione alla relazione interpersonale nel momento presente, con curiosità e accettazione.
E’ comune riconoscere di essere costantemente governati da automatismi e pensieri ricorrenti. Un’utile pratica appare essere quella di distanziarsi da questo tipo di pensieri, nel senso di osservarli come eventi creati dalla mente, senza confonderli con gli eventi reali. Comprendere che all’origine di stati di tipo ansioso, vi siano i pensieri automatici, e che la pratica della mindfulness agisce esattamente sui pensieri automatici, riducendoli, è una porta di ingresso a nuove possibilità di vita e di relazione.
I benefici per l’intero organismo di una regolare e seria applicazione delle forme di attenzione calma e rilassata agli eventi del momento presente, sono ormai largamente riconosciuti ma, generalmente, i momenti formali sono in forma individuale; anche se svolti in gruppo, non sono previste particolari interazioni meditative tra i partecipanti. Confortata da esempi nella storia delle correnti contemplative religiose (soprattutto monastiche), la proposta dell’Insight Dialogue è quella di esplorare le potenzialità di meditare in relazione, interagendo in alcuni momenti sul piano verbale e non verbale. L’addestramento fornisce utili spunti per la vita sociale ordinaria, e contribuisce anche a illuminare aspetti individuali del percorso meditativo, che non avevano avuto occasione di evidenziarsi nella tradizionale pratica solitaria.
Il testo procede seguendo la via delle quattro nobili verità del Buddha: la presenza della sofferenza, l’origine della sofferenza, la cessazione della sofferenza, il sentiero che conduce a tale estinzione. Vi è una sofferenza intra-psichica e personale, ma anche i complicati intrecci delle relazioni sono determinanti nel condizionare la nostra maturazione e sviluppo. Anche in tale universo, la sofferenza che esiste, ha un’origine, può essere fatta cessare e vi è una strada per conseguirlo.
In primo luogo, le relazioni rappresentano un impegnativo banco di prova nel percorso di crescita personale. Per includere e trasformare gli schemi abituali, la pratica assidua della pura consapevolezza nella relazione vuole coltivare importanti qualità umane. Innanzitutto, la benevolenza incondizionata (metta), che consiste in una relazione amichevole verso se stessi e verso gli altri, in un rapporto non difensivo, non diffidente, verso tutta la realtà. Ciò ha immediate conseguenze etiche, ma tale approccio comportamentale può maturare spontaneamente, senza forzature o resistenze da parte delle strutture del pensiero.
In secondo luogo, lo sviluppo dell’insight, dell’intuizione, della chiara comprensione di ciò che c’è, nel mondo e in noi stessi favorisce un’intelligenza, una visione risolutiva spontanea (prajna) che nasce proprio dalla coltivazione assidua di un’attenzione calma e aperta. Tale aspetto può apparire apparentemente contraddittorio, ma è stato sperimentato in molte occasioni, sia nella prospettiva orientale (ad esempio, i koan della tradizione zen), sia in quella occidentale. Ad esempio, il metodo socratico si pone l’obiettivo, attraverso una serrata e acuta analisi logica, di sciogliere le ingessature intellettuali e dare spazio al sorgere intuitivo di una nuova comprensione sulla realtà. (vedi pag. 42 ss).
Concretamente, Kramer suggerisce sei passi: Pausa, Rilassa, Apri, Confida nell’emergere, Ascolta in profondità, Dì la verità. Il punto-chiave è il primo, dare cioè il giusto tempo alla comunicazione e alla relazione, predisponendosi con calma e disponibilità al confronto e al pieno ascolto reciproco, osservando le sensazioni che emergono alla coscienza. La pratica della consapevolezza può essere intesa come una purificazione della percezione: togliere pregiudizi, barriere, filtri, per far emergere quello che c’è.
Nella nostra esperienza, abbiamo tutti sperimentato che la soluzione a un problema può arrivare più facilmente quando siamo rilassati, al mattino, dopo una passeggiata, rispetto a quando si sta rimuginandovi su da troppo tempo. Non si tratta di esperienza (know-how), né di competenza. La benevolenza e l’intelligenza intuitiva rappresentano risorse preziose per operare ed evolvere in modo autentico e responsabile; esse sorgono dalla piena consapevolezza del momento presente, e possono (o forse devono) essere condivise con le altre persone.

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Mente estesa e Mindfulness

La pratica della presenza mentale è stata introdotta in forma codificata dal dottor Jon Kabat-Zinn alla fine degli anni 70 del secolo scorso, come protocollo per la riduzione dello stress. Il modello della extended mind (mente estesa) è stato sviluppato da Andy Clark e David Chalmers alla fine degli anni 90. L’uso di artefatti esterni a supporto dei processi cognitivi, costituisce un processo ampliato e, nello stesso tempo, non più scindibile.
Il possibile legame tra l’approccio alla vita mentale introdotto dalla Mindfulness e la prospettiva culturale e psico-sociale della mente estesa, sta nel cercare saggezza e consapevolezza non più solo nelle esperienze individuali ma anche nel mondo in cui conduciamo le nostre esistenze.
Una coscienza non solo interna alla mente, ma comprensiva di tutto ciò che ci circonda: corpo, relazioni, ambiente naturale e culturale.
Questo può essere arricchito enormemente attraverso gli strumenti che le nuove tecnologie digitali in rete mettono a disposizione, inclusa anche la realtà virtuale.