In questo testo l’autore, esperto insegnante di meditazione secondo la tradizione buddhista Theravada, sviluppa ampiamente il tema degli aspetti interpersonali delle pratiche meditative secondo la prospettiva della mindfulness, che negli ultimi decenni si sta diffondendo, e che si arricchisce progressivamente di applicazioni in campo clinico e sociale.
Mindfulness è la traduzione inglese del termine sati, che in lingua pali significa consapevolezza. Il termine è stato impiegato per denominare una serie di metodologie e di pratiche, a partire dall’importante protocollo di medicina complementare MBSR di Jon Kabat-Zinn, per la riduzione dello stress.
Ricco di numerosi esempi concreti, il libro segue la matrice degli insegnamenti tradizionali, adattandoli al contesto occidentale, e portando l’attenzione sugli innumerevoli aspetti del vivere quotidiano in relazione, che costituisce il vero banco di prova dell’equilibrio personale.
Le interazioni sociali possono essere viste anche dal punto di vista dell’individuo e delle dinamiche interne, ma la gran parte degli automatismi prodotti da influenza sociale e spinte culturali è meglio evidenziata da un’impostazione relazionale e sistemica.
Al cuore dell’elaborazione di Kramer vi è il cosiddetto insight dialogue (dialogo di consapevolezza) che si esplicita nel prestare attenzione alla relazione interpersonale nel momento presente, con curiosità e accettazione.
E’ comune riconoscere di essere costantemente governati da automatismi e pensieri ricorrenti. Un’utile pratica appare essere quella di distanziarsi da questo tipo di pensieri, nel senso di osservarli come eventi creati dalla mente, senza confonderli con gli eventi reali. Comprendere che all’origine di stati di tipo ansioso, vi siano i pensieri automatici, e che la pratica della mindfulness agisce esattamente sui pensieri automatici, riducendoli, è una porta di ingresso a nuove possibilità di vita e di relazione.
I benefici per l’intero organismo di una regolare e seria applicazione delle forme di attenzione calma e rilassata agli eventi del momento presente, sono ormai largamente riconosciuti ma, generalmente, i momenti formali sono in forma individuale; anche se svolti in gruppo, non sono previste particolari interazioni meditative tra i partecipanti. Confortata da esempi nella storia delle correnti contemplative religiose (soprattutto monastiche), la proposta dell’Insight Dialogue è quella di esplorare le potenzialità di meditare in relazione, interagendo in alcuni momenti sul piano verbale e non verbale. L’addestramento fornisce utili spunti per la vita sociale ordinaria, e contribuisce anche a illuminare aspetti individuali del percorso meditativo, che non avevano avuto occasione di evidenziarsi nella tradizionale pratica solitaria.
Il testo procede seguendo la via delle quattro nobili verità del Buddha: la presenza della sofferenza, l’origine della sofferenza, la cessazione della sofferenza, il sentiero che conduce a tale estinzione. Vi è una sofferenza intra-psichica e personale, ma anche i complicati intrecci delle relazioni sono determinanti nel condizionare la nostra maturazione e sviluppo. Anche in tale universo, la sofferenza che esiste, ha un’origine, può essere fatta cessare e vi è una strada per conseguirlo.
In primo luogo, le relazioni rappresentano un impegnativo banco di prova nel percorso di crescita personale. Per includere e trasformare gli schemi abituali, la pratica assidua della pura consapevolezza nella relazione vuole coltivare importanti qualità umane. Innanzitutto, la benevolenza incondizionata (metta), che consiste in una relazione amichevole verso se stessi e verso gli altri, in un rapporto non difensivo, non diffidente, verso tutta la realtà. Ciò ha immediate conseguenze etiche, ma tale approccio comportamentale può maturare spontaneamente, senza forzature o resistenze da parte delle strutture del pensiero.
In secondo luogo, lo sviluppo dell’insight, dell’intuizione, della chiara comprensione di ciò che c’è, nel mondo e in noi stessi favorisce un’intelligenza, una visione risolutiva spontanea (prajna) che nasce proprio dalla coltivazione assidua di un’attenzione calma e aperta. Tale aspetto può apparire apparentemente contraddittorio, ma è stato sperimentato in molte occasioni, sia nella prospettiva orientale (ad esempio, i koan della tradizione zen), sia in quella occidentale. Ad esempio, il metodo socratico si pone l’obiettivo, attraverso una serrata e acuta analisi logica, di sciogliere le ingessature intellettuali e dare spazio al sorgere intuitivo di una nuova comprensione sulla realtà. (vedi pag. 42 ss).
Concretamente, Kramer suggerisce sei passi: Pausa, Rilassa, Apri, Confida nell’emergere, Ascolta in profondità, Dì la verità. Il punto-chiave è il primo, dare cioè il giusto tempo alla comunicazione e alla relazione, predisponendosi con calma e disponibilità al confronto e al pieno ascolto reciproco, osservando le sensazioni che emergono alla coscienza. La pratica della consapevolezza può essere intesa come una purificazione della percezione: togliere pregiudizi, barriere, filtri, per far emergere quello che c’è.
Nella nostra esperienza, abbiamo tutti sperimentato che la soluzione a un problema può arrivare più facilmente quando siamo rilassati, al mattino, dopo una passeggiata, rispetto a quando si sta rimuginandovi su da troppo tempo. Non si tratta di esperienza (know-how), né di competenza. La benevolenza e l’intelligenza intuitiva rappresentano risorse preziose per operare ed evolvere in modo autentico e responsabile; esse sorgono dalla piena consapevolezza del momento presente, e possono (o forse devono) essere condivise con le altre persone.
Molti differenti tipi di tecnologie sono sstati usati negli ambienti educativi: pagine stampate, gesso e lavagna, proiettori a muro, diapositive, proiezioni video. Insieme ad altri dispositivi, continuano a far parte dei processi di insegnamento e di apprendimento. L’uso di tecnologie tradizionali spesso limita le attività a un tempo e uno spazio delimitati. La nascita di nuove forme di tecnologia ha creato un rinnovato interesse per l’uso di supporti all’insegnamento. A causa della loro prevalenza nella società, l’introduzione di nuove tecnologie è opportuna. Molte tecnologie sono largamente usate in quasi tutti i posti di lavoro e ci si aspetta che gli studenti abbiano avuto familiarità con esse già durante gli studi.
Le scuole sono aperte alle innovazioni tecnologiche, così che vecchio e nuovo devono coesistere. Questa coesistenza crea tensioni, e influenzerà l’educazione del XXI secolo. Possiamo porci queste domande: Quale tipo di tecnologie tradizionali avete usato nella vostra scuola?
Internet ha rivoluzionato il mondo delle comunicazioni come mai prima. L’invenzione del telegrafo, telefono, radio e computer hanno segnato i passi per questa nuova integrazione di funzionalità. Molte delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) sono prodotti delle tecnologie informatiche e di rete. I computer sono comunque stati preceduti da antiche tecnologie, come l’abaco e i dispositivi computazionali meccanici della rivoluzione industriale.
Uno dei primi calcolatori, ENIAC, fu usato come arma militare; questa macchina aveva capacità inferiori a quelle di una calcolatrice tascabile. Il primo computer totalmente digitale, lo Z1, fu creato nel 1938 da Konrad Zuse, sette anni prima che fosse creato un linguaggio di programmazione. Lo Z3 fu il primo computer con un programma operativo, fu costruito nel 1941, durante la seconda guerra mondiale. Erano macchine primitive, anche se costavano centinaia di migliaia di dollari.
Le reti di telecomunicazione crearono le basi per Internet e il World Wide Web, quindi possiamo far risalire i loro inizi agli anni ’60. Il primo messaggio in rete fu mandato sulla rete ARPANET dal computer del professore di scienze Leonard Kleinrock, nel laboratorio dell’Università della California (UCLA), Los Angeles. Le reti a commutazione a pacchetto, come ARPANET, Mark I, in UK, Tymnet, Telenet, furono sviluppate tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, usando una varietà di protocolli. Negli anni ’80, Il lavoro di sir Tim Berners-Lee nel Regno Unito, sul World Wide Web, teorizzò il fatto che i linguaggi/protocolli possono collegare ogni documento/ ipertesto in sistemi di lavoro.
Internet ha avuto un impatto rivoluzionario sulla cultura, sul commercio, includendo la nascita di comunicazioni in tempo quasi-reale, come la posta elettronica, la messaggeria istantanea, le chiamate su protocollo Internet (VoIP), le video-chiamate a due vie, i forum di discussione, i social network, i siti di commercio on-line.
Le tecnologie ICT sono sempre più utilizzate e integrate nei processi educativi. L’affermarsi di queste tecnologie nelle attività di insegnamento e di apprendimento ha sollevato importanti questioni. Ad esempio:
Le nuove tecnologie stanno cambiando le classi scolastiche? Stanno mutando le tecniche e le strategie di insegnamento? Le caratteristiche degli studenti sono state modificate?
Le nuove tecnologie hanno portato cambiamenti nella qualità dell’educazione? Nelle teorie dell’apprendimento? Nel successo dell’attività educativa? Nella democratizzazione dell’istruzione?
Effetti dell’ICT e processi di cambiamento
L’integrazione della tecnologia nei processi educativi ha introdotto nuove strade in cui gli insegnanti possono arricchire le attività di insegnamento e apprendimento. Gli insegnanti reagiscono all’uso della tecnologia in classe in modi differenti. Si ritiene che vi siano tre generazioni di insegnanti, in termini dell’uso della tecnologia in classe. Gli studenti stanno giocando un ruolo importante nelle attività scolastiche. Molti hanno familiarità con molte delle tecnologie impiegate nell’ambiente educativo.
Secondo Prensky, molti degli studenti oggi sono nativi digitali, ma i loro insegnanti sono immigrati digitali. L’uso della tecnologia in classe dovrebbe essere considerato appropriato se usato per scopi specifici, nei processi di insegnamento e apprendimento come parte integrante degli obiettivi di apprendimento. L’uso della tecnologia nei processi di apprendimento diventa valido solo quando vengono visti come elementi in un ambiente ben costruito. Pensa a te stesso. Sei un nativo digitale, o un immigrato digitale?
Per incrementare le attività in classe, gli insegnanti fanno uso di lavagne informatizzate, computer e tablet, software di test e misure, LMS-CMS, applicazioni interattive, giochi educativi, ipertesti, ipermedia, applicazioni multimediali.
La prima generazione: vi sono ancora insegnanti che temono l’uso delle tecnologie, tranne quelle più agevoli (lavagne e gesso, testi a stampa).
La seconda generazione: Insegnanti che usano qualche forma di tecnologia durente le presentazioni, anche se non spesso (proiettori a muro, riproduttori audio).
Terza generazione: Alcuni insegnanti massimizzano l’uso di diverse tecnologie, a volte al punto di sovraccaricare le attività in classe.
La crescente applicazione della tecnologia a supporto dell’insegnamento e apprendimento fornisce una base con cui alcuni insegnanti riconsiderano le loro strategie per le attività di insegnamento. Pensa al tuo insegnante preferito. A quale generazione appartiene?
Apprendimento sincrono e asincrono
Grazie a Internet, alle tecnologie informatiche e mobili, ai computer, le nuove tecnologie sono capaci di promuovere attività educative, sia sincrone sia asincrone, non confinate in tempi e spazi limitati.
Cos’è l’apprendimento sincrono? Stesso momento, ma non nello stesso posto. Diverse forme di televisive, digitali, e apprendimento on line in cui gli studenti apprendono da insegnanti, colleghi, studenti in tempo reale, ma non in presenza.
Cos’è l’apprendimento asincrono? Stesso posto, ma non nello stesso momento. Tipicamente applicato a interazioni insegnante-studente, o tra pari, in diversi luoghi, o differenti momenti. Anche l’apprendimento on line può essere asincrono. Lezioni pre-registrate, scambio di e-mail, bacheche di discussione, sistemi di gestione dei corsi che organizzano materiale di studio e relativa corrispondenza, sono tutte considerate forme di apprendimento asincrono.
Le risorse di apprendimento on line usate per supportare l’apprendimento asincrono includono e-mail, liste di distribuzione elettroniche, sistemi di conferenza, bacheche di discussione on line, wiki e blog.
Forme asincrone di comunicazione sono a volte implementate con il supporto di componenti come chat testuale e vocale, e videoconferenza. L’insegnamento faccia-a-faccia è sincrono, asincrono, o entrambi?
Teoria cognitiva dell’apprendimento multimediale
La teoria cognitiva di R.E. Mayer dell’apprendimento multimediale (CTML) incorpora diversi concetti provenienti sia dalla scienza dell’apprendimento sia da quella dell’insegnamento. La filosofia è che il disegno dei corsi di e-learning dovrebbe essere basato su una teoria cognitiva riguardo a come le persone imparano e su ricerche scientificamente valide. I corsi di e-learning dovrebbero essere costruiti alla luce di come la mente apprende e di evidenze sperimentali riguardanti le caratteristiche dell’e-learning che promuovono l’apprendimento migliore.
CTML è supportato dall’estesa ricerca di Mayer, coinvolgente la verifica delle teorie dell’apprendimento, focalizzandosi su situazioni reali. Parole e disegni presentati agli alunni attraverso una presentazione multimediale sono processati attraverso due canali separati, non in conflitto. Parole e immagini sono attivamente selezionati dallo studente dalla memoria sensoriale (attraverso occhi e orecchie) ed entrano nella memoria di lavoro dove sono organizzate in modelli verbali e pittorici. I due modelli sono poi integrati con la conoscenza pregressa richiamata dalla memoria a lungo termine. L’integrazione avviene nella memoria di lavoro, seguendo ogni porzione segmentata dell’istruzione in modalità multimediale.
Influenze della scienza dell’apprendimento
La teoria cognitiva del dual processing è stata descritta per primo da Paivio nel 1986. Essa suggerisce che gli stimoli verbali e visivi sono processati separatamente, ma simultaneamente, nella memoria di lavoro.
La capacità limitata della memoria di lavoro indica che questa memoria può gestire un numero limitato di voci di informazioni alla volta, ciò richiede di scegliere come allocare le risorse cognitive. La teoria del carico cognitivo fu sviluppata da Sweller, che propose l’esistenza di limitazioni nella capacità della memoria di lavoro.
Nel processamento attivo, le persone sono cognitivamente impegnate nell’attribuire un senso agli stimoli presentati nella memoria di lavoro. Quando si compie un apprendimento significativo, le persone sono abili a recuperare le conoscenze recentemente acquisite dalla memoria a lungo termine. Trasferimento vicino e lontano nel tempo.
Teoria del doppio codice
La teoria del doppio codice (DCT) è una teoria generale della mente e della cognizione. Si origina negli anni ’60 per spiegare la potenza degli effetti che l’immaginazione ha sulla memoria. La DCT è una delle teorie più influenti sulla cognizione che è stata applicata direttamente all’educazione. E’ il primo sistematico tentativo scientifico per collegare due tradizioni in filosofia e psicologia: immagine e parola.
La teoria DCT assume che la cognizione coinvolge le attività di due codifiche mentali qualitativamente differenti:
• Codifica verbale, specializzata per il linguaggio in tutte le sue forme
• Codifica non verbale, specializzata con oggetti non linguistici ed eventi in forma di immagini mentali.
I sistemi di codifica sono separati ma interconnessi. Possono operare indipendentemente, in parallelo, ma anche attraverso connessioni. La diversità e la flessibilità della cognizione viene dall’attività entro e tra i codici. La DCT è basata sulla comune assunzione della continuità tra percezione e memoria.
La DCT è quindi multimodale, dal momento che le esperienze verbali e non verbali possono avvenire con differenti modalità sensoriali, includendo la visione, l’ascolto, il tocco ( nel caso del linguaggio) e tutti i cinque sensi (nel caso delle immagini mentali)
Le teorie della memoria di lavoro, che propongono una diversa e specifica modalità di funzionamento della memoria, sono generalmente consistenti con la DCT, anch’essa assume che la memoria a lungo termine è una modalità specifica della memoria.
La DCT assume che la produzione di contributi innati alla cognizione e le differenze individuali sono il risultato dell’interazione tra i geni e l’ambiente. Una applicazione diretta di questa è che le immagini e il linguaggio concreto dovrebbero essere compresi e ricordati meglio dei linguaggi astratti.
Applicazioni ed estensioni della teoria del doppio codice
L’applicazione più produttiva della DCT è stata nell’alfabetizzazione. La teoria offre spiegazioni empiricamente supportate di tutti gli aspetti dell’alfabetizzazione:
1. decodifica
2. comprensione
3. risposta alla lettura
4. composizione scritta.
Un programma di istruzione su larga scala per migliorare la lettura e la comprensione, insegnando agli studenti a visualizzare mentre leggevano testi è stata applicata con successo in istituti scolastici urbani. Un’altra applicazione ha fatto uso dell’immaginazione cinestetica nella comprensione di un testo , mentre veniva letta da un insegnante, adoperando strategie per la focalizzazione dell’idea centrale.
L’uso dell’immaginazione mentale nell’apprendimento di capacità psicomotorie è stato estensivamente studiato. La più ambiziosa estensione della DCT è la sua spiegazione dell’evoluzione della mente. Negli ominidi l’intelligenza è evoluta da una primitiva forma non verbale ad una forma successiva che incorpora il linguaggio. I pensieri verbali e non verbali si sono accordati sinergicamente. Le immagini mentali in memoria rappresentano eventi passati, futuri, possibili o impossibili, in assenza di percezione.
Il linguaggio fornì un sistema assai sofisticato di segni per un pensiero efficiente e per la comunicazione tra gli umani, e in loro stessi. La combinazione di immaginazione e linguaggio è vista come la spinta evolutiva per tutti i progressi umani.
La DCT differisce dalle teorie che assumono che tutte le cognizioni hanno una comune, astratta, codifica, nella forma di schemi di proposizione. Il mentalese degli schemi, o proposizioni, è assunto essere computazionale in natura, costruito nel cervello analogamente a un codice di computer. I proponenti di altre teorie credono che la loro concezione sia più elegante e parsimoniosa. Alcuni aspetti della cognizione sono stati modellati nei computer in modo tale da supportare questi argomenti. Questa sfida resta irrisolta.
La teoria del carico cognitivo
La teoria del carico cognitivo è costruita sul modello largamente accettato del processamento umano dell’informazione. Le tre parti di tale processo sono: la memoria sensomotoria, la memoria di lavoro, al memoria a lungo termine. Ogni giorno veniamo bombardati da informazioni provenienti dai sensi. La memoria sensomotoria filtra molte di queste informazioni, e lascia una impressione dei temi più rilevanti, in modo che possa passare nella memoria di lavoro. L’informazione passa quindi in questo magazzino di memoria, dove viene di volta in volta processata o scartata. La memoria di lavoro contiene da cinque a nove voci (chuncks) di informazione alla volta (vedi regola del 7 più o meno 2 è centrale nella teoria del carico cognitivo).
Quando il cervello processa l’informazione, la categorizza, e la sposta nella memoria a lungo termine, dove è immagazzinata in strutture di conoscenza detti schemi. Vi sono diversi schemi per diversi concetti e comportamenti. Maggiore è la pratica nell’usare questi schemi, minore è lo sforzo per compiere i relativi comportamenti. Questo è chiamato automatismo. Anche gli schemi sono significativi nella teoria del carico cognitivo.
La teoria del carico cognitivo è stata sviluppata da J. Sweller, e fornisce un approccio scientifico al disegno dei materiali per l’apprendimento. Il carico cognitivo è in relazione con la quantità di informazione che la memoria di lavoro può gestire di volta in volta. Data questa capacità limitata, i metodi di addestramento devono evitare di sovraccaricarla con attività addizionali che non contribuiscono direttamente all’apprendimento. La teoria del carico cognitivo ci mostra che la memoria di lavoro può essere ampliata in vari modi:
• Effetto modalità, dato che la mente processa separatamente informazioni visive e uditive. Un testo e un disegno competono l’uno con l’altro.
• Conoscenza prioritaria, dato che la memoria di lavoro tratta un certo schema come una singola voce. Una pratica automatizzata aiuta ad imparare facilmente e senza sforzo.
• Attività di apprendimento, applicata su conoscenze pregresse, si espandono la capacità della memoria di lavoro.
• Pre-training, o competenze precedentemente acquisite da parte dello studente, introdotte in un nuovo argomento. Aiuta a stabilire schemi che estendendo la memoria di lavoro. Ciò significa che è possibile acquisire e comprendere informazioni più complesse.
La teoria del carico cognitivo aiuta a disegnare addestramenti che riducono la domanda di memoria di lavoro degli studenti, in modo da apprendere più efficacemente. Ad esempio, determinando le conoscenze richieste e adattando di conseguenza la presentazione. O anche riducendo lo spazio del problema in parti, e presentando soluzioni divise in parti.
Effetto di riduzione dell’attenzione divisa. Sorgenti multiple di informazioni visive rendono più difficile la creazione di nuovi schemi. Questo effetto è ridotto quando le informazioni visive sono integrate. Ad esempio, incorporando etichette nei diagrammi, piuttosto che ponendole in un box a lato, o rimuovendo ogni sorgente estranea, fonte di rumore.
Suggerimento: Prendere vantaggio dai canali visivo e auditivo nella memoria di lavoro. Un’altra via di superare l’effetto dell’attenzione divisa è di rimpiazzare alcune informazioni visive con informazioni uditive. Questa combinazione riduce il carico cognitivo nella memoria di lavoro, poiché il canale uditivo ha il suo spazio di memoria.
Il tema di questo articolo – gli approcci allo studio della mente e della presenza mentale in Oriente e Occidente – è presente da oltre due decenni nella sfera della cura ampiamente intesa, in numerosi programmi di ricerca nei campi delle scienze umane, delle neuroscienze e delle scienze cognitive. Tali attività, nel momento in cui sono impostate in collegamento con la meditazione, e più in generale con le vie della tradizione, costituiscono un terreno di nuove esperienze e di sviluppo nello studio della mente e dei suoi processi, e nelle forme di prevenzione e di cura olisticamente intese. In effetti, nell’attuale panorama storico e culturale, caratterizzato da una compiuta globalizzazione, i rapporti tra culture diverse sono così intensi da sfumare in una reciproca ibridazione, facendo emergere connessioni molteplici, improbabili fino a pochi decenni or sono.
L’obiettivo è quello di accennare anche alle caratteristiche dell’orientamento teorico-esperienziale alla consapevolezza del momento presente, a come possa influire sui processi mentali e sui vissuti personali di coloro che la ricercano e la praticano, e inoltre investigare sui possibili percorsi di integrazione tra modelli e punti di vista diversi tra loro.
Da alcuni anni mi sono interessato al tema delle tecniche meditative come la meditazione buddhista vipassana, meglio conosciuta come insight meditation, o mindfulness, di cui oggi molto si parla, forse anche in termini di moda. L’interesse per questi argomenti è cresciuto in me nel corso degli anni, alimentato anche da vari contesti di apprendimento e di pratica formale di yoga, meditazione e arti marziali, con finalità prevalentemente formative e culturali, a Napoli e in altre città. Mi affascina pensare che alcune discipline, nate per alleviare la sofferenza, siano praticate da millenni, e che il loro uso sia tenuto tuttora in grande considerazione, come se le attuali mappe psichiche e terapeutiche non esauriscano i bisogni e le potenzialità di cura dell’essere umano.
Oriente e Occidente in psicologia
La psicologia moderna nasce in Occidente nel secolo XIX con una impostazione scientifica, volta a costruire un sistema di pensiero omogeneo e sistematico, sul modello delle scienze fisiche e naturali. Accanto a questa, l’ottica umanistica e sociale ha portato in evidenza il problema di ridurre la coscienza al solo prodotto dell’attività cerebrale, trascurando le implicazioni culturali e sociali nella vita di ogni essere umano.
Gli attuali sviluppi vedono due impostazioni prevalenti:
* le scienze cognitive, di impostazione naturalistica, che indagano i processi mentali di conoscenza, i comportamenti e la comunicazione.
* la clinica, che interviene sul disagio psichico, con una impostazione più aperta alla complessità e alla originalità del quotidiano.
Con l’ibridazione delle culture, entrambe si mostrano oggi più o meno aperte alle tradizioni sapienziali orientali. Queste cosiddette “psicologie tradizionali” nascono come riflessioni razionali sul cammino spirituale, meditativo e contemplativo. Esse studiano ed evidenziano esperienze e riflessioni, in una sorta di empirismo filosofico razionalista, in particolare per il buddhismo. Vengono riportate mappe e descrizioni dinamiche minuziose di un cammino interiore di tipo mistico e ascetico, di cura spirituale, ma non certamente di tipo terapeutico, modernamente inteso. Qui può nascere la fecondità dell’incontro con le psicologie e psicoterapie occidentali, dal quale si può originare un modello più ricco e completo, una nuova e più completa mappa dei processi mentali, che guidi le psicologie e le terapie del futuro. In questa prospettiva, la mente, il pensiero e la coscienza non sono visti come fenomeni interni all’individuo (o alla coppia/diade), ma invece come eventi inter-individuali , collettivi e sociali. Tra le correnti più influenti di tale ricco panorama vanno ricordate la p. Culturale di J. Bruner, la p. Umanistica di A. Maslow, la p. Transpersonale di R. Assagioli, e infine la p. Positiva di M. Seligman.
La Mindfulness
Recentemente, gruppi di ricercatori in varie parti del mondo hanno innovato le modalità tradizionali dell’approccio teorico e clinico di tipo neuro-cognitivo e comportamentale, sperimentando percorsi che si richiamano alle tradizioni esperienziali e alla meditazione di matrice orientale. Tra le numerose vie di ricerca, la meditazione vipassana, o di consapevolezza, è quella più studiata e sperimentata dai ricercatori; nel mondo anglosassone è conosciuta come insight meditation, o mindfulness, contrazione quest’ultima di mindful awareness, termine che traduce la voce sati, (lingua Pali), che denomina uno attributo mentale considerato basilare in tutte le tradizioni del buddhismo, e che può essere tradotto anche con “consapevolezza a mente vuota”, “attenta consapevolezza”, “presenza mentale” (per approfondimenti, cfr. Chiesa, 2011). Esistono numerosi studi sulla descrizione delle tecniche, gli strumenti, le applicazioni terapeutiche, ma poco su come l’utilizzo di tali nuove forme di presenza mentale incidano sui processi di costruzione della propria identità, sull’incapacità ad essere se stessi nella relazione con il il proprio corpo, con il mondo ed accettarsi per quello che si è, e sulle infinite motivazioni sottese a questi comportamenti, come si sviluppi una nuova fisionomia, che caratteristiche assuma etc…
Vi sono in linea di massima due prospettive già molto avviate: 1) la prospettiva delle neuroscienze e delle scienze cognitive (approccio mindsight, di Daniel Siegel), 2) quella delle psicoterapie cognitive orientate alla mindfulness (ad esempio, il noto programma Mindfulness-Based Stress Reduction, legato alla figura di Jon Kabat-Zinn). E (sempre grosso modo) due sono gli orientamenti: un entusiasmo incondizionato e ‘ingenuo’ nei confronti delle nuove tecniche di matrice orientale, o al contrario profezie e condanne (soprattutto nel campo psicologico) per la presunta carenza di validità scientifica evidence-based. In tal modo, mi sembra che si corra il rischio di perdere di vista quello che dovrebbe rappresentare il centro della discussione e cioè l’essere umano, con le sue modalità di acquisizione del reale e di rappresentazione del mondo.
A questo proposito, vi è un ambito che in senso lato può essere definito educativo, con la finalità generale di accompagnare percorsi individuali sulla via della consapevolezza, motivati né dalla cura di patologie, né da ciò che genericamente si definisce come ricerca spirituale (Paul Ekman, programma Cultivating Emotional Balance nell’ambito di Mind and Life). Tendenzialmente sono interessato al suddetto ambito, e alle ipotesi contenute in programmi “educativi”, rivolte a persone sane (o normalmente nevrotiche) alle prese con stress e ansie, e mutuate da tecniche meditative.
Sfide per la cultura Occidentale
Nella società contemporanea vi è un’assenza della consapevolezza della natura psico-spirituale umana. Si osserva da tempo una progressiva atrofizzazione delle capacità di introspezione. Uno dei molti errori culturali di oggi sta nella cosiddetta “religione della scienza”: ciò che non si può misurare non esiste, quando invece l’affermazione corretta è che ciò che non si può misurare non rientra nell’ambito della scienza. La cultura orientale porta in dote una visione profonda dei fondamenti dell’essere e della realtà, insieme a valori antichi e universali.
D’altro canto, l’Occidente è forse giunto a un punto critico in cui ha iniziato a comprendere che il controllo tecnologico sul mondo esterno ha dei limiti, e questi limiti invitano a cercare all’interno di sé. La scienza ha cominciato a fare una riflessione critica e a vedere che la tecnologia va associata a una esplorazione dell’uso che ne facciamo. In questo momento l’Occidente si sente forse di aver troppo trascurato questo aspetto, quindi si ritorna a esplorare la vita interiore. Insieme alla tradizione spirituale, che è quella della mistica cristiana, per esempio, c’è la tradizione psicologica che ha estesamente sondato i processi della mente. Rivolgersi invece all’Oriente, significa addentrarsi in un terreno meno inquinato da una serie di ferite o di condizionamenti, che alcuni di noi sentono di aver ricevuto dall’educazione tradizionale occidentale.
“La verità è una cosa viva che non può essere fermata in una convinzione”. E il non attaccamento di cui parla il Buddha è proprio il lasciare andare tutte le convinzioni e trovarsi quindi di fronte alla vita, alla realtà, al mistero della morte, con una mente che non presume di avere già, di sapere già la risposta. Questo è l’inizio del cammino, e anche la fine, perché, nel momento in cui noi siamo di fronte alla verità senza una qualsiasi opinione, a quel punto forse si manifesta un’altra capacità di conoscere, che chiamano, per esempio, i buddhisti, sapienza, saggezza, che altrimenti non può venire, perché la nostra mente è troppo occupata, affastellata di convinzioni, di concetti. In questo senso, la via della meditazione è intesa come un percorso dove (più che apprendere, accumulare conoscenza) lasciare andare tutto ciò che crediamo di sapere, e cominciare con una mente aperta e fresca a vedere quello che c’è. Infatti, se esiste questa dimensione, è sempre davanti ai nostri occhi, anche se non la vediamo. Il lavoro meditativo viene fatto attraverso uno strumento che è la consapevolezza intuitiva: si aumenta la capacità di essere presenti, qui e ora, alla vita, anziché, come spesso ci accade, perderci nei ricordi del passato e nelle anticipazioni del futuro, senza più accorgerci di dove stiamo, di che cosa stiamo facendo e di chi siamo. Allora la pratica meditativa è proprio la capacità di calmare la mente, al punto che in certi momenti la mente diventa stabile come la fiamma di una candela in una stanza senza vento, per indicare questa caratteristica meditativa, cioè la calma, quel riposo sveglio che ci permette di guardare. Ma l’aspetto più importante è guardare attraverso la calma. Se ho un’acqua agitata che solleva la sabbia, non posso vedere il fondo. Per vedere il fondo devo aspettare che l’acqua si calmi e si depositi la sabbia, ma poi devo guardare. Ecco, questo guardare, che è la consapevolezza, è considerato qualcosa di importantissimo perché ha la capacità di trasformare l’energia anche delle emozioni negative. Infine, la via meditativa è una terza via tra non reprimere e non scaricare le emozioni. Essa consiste nell’osservare le emozioni e nel sentirle in vari modi: fisicamente, in che punto del corpo le sento, osservare che pensieri evocano, lasciarle consapevolmente sorgere-manifestarsi-esaurirsi.
Franco Bruno
La scoperta dell’errore
L’apprendimento avviene mediante la scoperta dell’errore è grazie ad esso che arriviamo alla conoscenza.
Saper di poter sbagliare aiuta il soggetto a non temere il giudizio perché consapevole del fatto che attraverso di esso la conoscenza aumenta. L’incontro, come pratica e scoperta, il superamento dell’errore, il controllo dell’errore, individuale o collettivo che sia, può essere produttivo di nascita e sviluppo di sentimenti che attengono alla sfera morale e sociale dell’essere umano. Il bambino che ha dimestichezza con l’errore, sia nel commetterlo che nel correggerlo, e osserva il suo simile che viene a trovarsi nelle sue stesse condizioni, si sente a lui vicino e legato per qualcosa che fa parte della loro natura e della loro formazione.
Anche la scuola ha iniziato ad interrogarsi sulla concezione dell’errore. Si è cominciato a ragionare sul problema dell’errore come aspetto connotato di valenza non solo negativa ma anche positiva. L’apprendimento si connota di una sua specificità di processo mentale, e l’insegnamento si configura come attività di mediazione tra il soggetto che costruisce questi processi e l’oggetto culturale che diviene la fonte ineliminabile di alimentazione degli stessi. In questa logica, l’attenzione è tutta spostata sui processi di apprendimento che l’alunno attiva, sui suoi sforzi, le sue difficoltà, i suoi errori. La sottolineatura dell’errore è di tipo positivo, l’insegnante supporta cioè l’alunno nella riflessione su ciò che sta avvenendo nella sua mente mentre sta imparando. Il compito dell’insegnante è anche quello di far comprendere ai propri allievi che l’errore non è un peccato o qualcosa di drammatico e scandaloso, ma il motore del progresso scientifico e del processo educativo nel quale sono coinvolti.
La pedagogia positiva dell’errore si realizza in due aspetti: portare l’alunno alla riflessione sul suo apprendere e aiutarlo a controllare in modo positivo i suoi sforzi, i suoi insuccessi, le sue insicurezze, ma anche l’insegnante, in questo processo, si mette in discussione circa i propri possibili errori e su come riuscire a prevenire gli errori degli alunni, nei processi di insegnamento-apprendimento che attiva. Egli si interroga soprattutto in rapporto al tipo di strategie da attivare per favorire il successo nell’ apprendimento, attraverso processi di controllo differenziati a seconda della difficoltà del compito di apprendimento.
Tra le strategie più utili a tal fine vi è certamente la necessità di tener conto che è necessario saper proporre in modo chiaro ed inequivocabile obiettivi, comportamenti, risultati attesi rispetto al processo di apprendimento attivato. Questo significa che l’attenzione sull’alunno non sarà tanto focalizzata sul fatto che egli sta acquisendo competenze comportamentali, quanto sulle sue modalità di pervenire alla conoscenza, sui procedimenti mentali ed emozionali che lo portano a modificare la sua struttura di conoscenza in modo flessibile e articolato, ed a sapere di sapere, modificando in tal modo i propri processi mentali. Tale pedagogia e prassi educativa, che traggono fondamento dalla negazione di ogni rigida metodica e sono improntate al dinamismo creativo, alla cooperazione fattiva, alla ricerca perenne, sono basate sull’esperienza per tentativi: esperienza, cioè, rivolta alla ricerca di soluzioni soddisfacenti dei problemi che la viva realtà pone continuamente (cfr. Freinet, 1963). Questa ricerca comporta, per sua natura, di incorrere continuamente in errori, che volta a volta vengono eliminati, spianando così la strada verso la conoscenza, alla cui base, pertanto, c’è una forte motivazione e alla cui scoperta concorre certamente una buona dose di immaginazione e di creatività, disciplinate poi da un lucido rigore logico.
da Andrea Pedullà MindMapp
Conosciamo poco riguardo alla nostra attività mentale. I primi studi su di essa risalgono alla fine dell’800, ma solo a partire dalla metà del secolo scorso si è ipotizzato che il pensiero sia
un processo (cognitivo) che conduce all’elaborazione degli input ricevuti dall’esterno, anche in relazione alle teorie computazionali per l’elaborazione anche artificialmente dei procedimenti (algoritmi) in grado di produrre conoscenza (Turing).
Successivamente, ha prevalso una modalità di approccio più sistemica allo studio della mente, che ha visto la collaborazione di studiosi di tante discipline diverse, dando vita alle cosiddette neuroscienze. Queste ultime hanno consentito di svelare qualcosa di molto sorprendente, ma al tempo stesso già sotto gli occhi di tutti, ovvero il fatto che la mente non è collocata solo all’interno del cervello. Una parte dei processi cognitivi avviene infatti anche nel corpo (embodied mind), in un rapporto di circolarità e influenza reciproca, cioè dal cervello verso il corpo e dal corpo verso il cervello. Un apporto fondamentale alla mente viene anche da elementi esterni (embedded mind), come ad esempio l’ambiente fisico circostante o il linguaggio, che è un prodotto della cultura. La nostra mente si crea perciò di continuo in un rapporto di interazione tra cervello, corpo e ambiente.
Un modello molto interessante è stato quello sviluppato poi da Andy Clark e David Chalmers alla fine degli anni ’90, i quali hanno parlato di mente estesa (extended mind). La mente estesa è quella dimensione che si verifica nel momento in cui utilizziamo degli strumenti esterni come ausilio a determinati processi cognitivi, come ad esempio il taccuino, la calcolatrice, l’agenda, eccetera. Tale utilizzo costituisce un processo cognitivo nel quale partecipano sia la mente umana sia l’oggetto stesso, i quali compongono un sistema abbinato dove entrambi sono ugualmente indispensabili e attivi. Rimuovere l’oggetto esterno comporterebbe lo stesso danno funzionale che rimuovere la parte di cervello interessata. Se tu mi chiedi Sai che ore sono? e io dopo aver guardato l’orologio rispondo Certo che lo so, sono le 10 e 30, non affermo la verità. Dovrei dire Io e il mio orologio lo sappiamo.
Quando utilizziamo un dispositivo digitale o uno dei servizi che esso veicola, il processo cognitivo avviene grazie a una collaborazione tra cervello e oggetto esterno. Si pensi a una ricerca su Google o alla consultazione delle Google Maps per raggiungere una destinazione. Ormai tutti i media digitali – cioè dispositivi come gli smartphone, i tablet e i computer, ma anche i servizi digitali che essi veicolano, come Facebook, Google, le varie app, eccetera – costituiscono parte integrante della nostra mente. Disconoscerlo, secondo lo stesso Chalmers, costituisce uno sciovinismo del cervello senza fondamento. Senza la ricerca Google o Wikipedia la nostra mente non sarebbe quello che è oggi.
Tutto questo apre delle enormi possibilità, specie se si tiene conto della componente collaborativa del collegamento in rete, che dà vita a quella che Derrick de Kerckhove chiama mente accresciuta, una dimensione nuova e più potente della mente umana.
Allo stesso tempo si creano enormi problemi. Il più immediato di essi è la mortificazione della nostra dimensione corporea. A forza di stare chini sui nostri dispositivi assumiamo posizioni dannose per l’organismo e sacrifichiamo l’attività fisica. Già questo porta molta sofferenza, come tutti abbiamo sperimentato. Un’umanità più intelligente ma menomata fisicamente non è un buon compromesso, per questo inizio millennio. Essere costantemente online ci porta anche lontano dal qui e ora, allontanandoci dal contesto nel quale ci troviamo. Mentre siamo fisicamente accanto alla persona amata, la nostra mente è altrove, come alienata dall’unico contesto in grado di darci benessere, quello delle persone con le quali possiamo avere un contatto fisico.
La presenza costante degli smartphone ci allontana inoltre dalla dimensione della conversazione, la forma di comunicazione umana più ricca. Una studiosa come Sherry Turkle, del MIT, ha evidenziato come il problema della mancanza di conversazione diretta provochi una sorta di analfabetismo emotivo tra i ragazzi cresciuti nell’era digitale. Questi ultimi non conoscono il lessico delle emozioni che passa attraverso il linguaggio parlato e la relativa mimica, perché sanno comunicare solo con mezzi asincroni. Indubbiamente anche questo è un prezzo da pagare molto alto, in questo passaggio generazionale.
I cahiers de doléances che si vanno riempiendo con i problemi legati a questa fase di digitalizzazione delle nostre vite comprendono molti altri aspetti. Nicholas Carr ha evidenziato il carattere taylorista del sistema di ricerca di Google, che ci spinge a fare il massimo possibile di navigazioni di pagine nell’unità di tempo, proprio come avveniva nella fabbrica fordista, ma questo ci spinge inevitabilmente a un approccio più superficiale alla conoscenza. Una superficialità alla quale fa da sponda Facebook, dove l’informazione e la conoscenza vengono dispensate in pillole di brevi video, citazioni, immagini.
Ciò comporta un ulteriore problema: quello dell’iperattivismo che ci viene richiesto, in una condizione simile a quella dell’operaio Charlot nel film Tempi moderni (1936), che non riusciva a stare dietro al ritmo impostogli dal nastro trasportatore. Il web, con i suoi hyperlinks, nasce come tecnologia che spinge all’azione, ma oggi la presenza di notifiche e richieste d’azione è soverchiante nella nostra vita quotidiana e ci toglie il tempo quasi di respirare. L’indigestione di informazioni che ne consegue non è benefica per la nostra salute mentale. Nello streaming di Facebook si mescolano i contenuti (e le emozioni) più disparati, in un’orgia di input che ci rende più infelici e più inclini alla depressione, come hanno dimostrato diverse ricerche.
Ci siamo ritrovati in così breve tempo in questa nuova dimensione – dominata da un’identità digitale che in molti casi ha il sopravvento su quella reale – che facciamo sempre più fatica a distinguere il concreto dal digitale, la verità dalla menzogna, il fondamentale dal superfluo. Tutto è sempre più trasparente, il che a volte è un bene, come quando vengono resi pubblici i bilanci da parte di chi ci governa, a volte è un male, come quando l’intimità delle persone più fragili diventa di dominio pubblico, riscuotendo molta più audience rispetto a oggetti dell’attenzione noiosi come i bilanci.
Tutto questo per dire che oggi sappiamo solo che sta avvenendo un passaggio molto importante, che questo passaggio implica una trasformazione della nostra mente e che esso potrebbe portarci a vivere una vita migliore o peggiore. Qui sta veramente la differenza, perché in quanto esseri umani abbiamo l’aspirazione di fondo a essere felici, non a disporre di strumenti sempre più sofisticati.
Quali sono i fattori che determineranno esiti positivi o negativi di questa evoluzione? Cosa fa dell’invenzione tecnologica un’innovazione con ricadute positive sulla nostra felicità? Vivremo in una nuova dimensione dominata dallo spirito collaborativo e dall’economia del dono o si moltiplicheranno sempre di più gli episodi di linciaggio online come quelli a cui assistiamo in questo tempi?
La risposta sta in un mix di consapevolezza individuale e collettiva, che io chiamo Digital Mindfulness. […] Se imparassimo l’alfabeto essenziale dell’intelligenza emotiva per saper distinguere cosa stiamo provando ora, sapremmo difenderci meglio dal peso di tanti input che ci arrivano di continuo dai nostri schermi. Se la trasparenza e la memoria del web fossero per noi uno stimolo a ponderare bene i nostri comportamenti, i media digitali costituirebbero per noi uno stimolo virtuoso. Se in una giornata passata interamente online potessimo ogni tanto riportare l’attenzione al nostro corpo, non perderemmo il contatto con ciò che siamo veramente. E così via.
Dobbiamo imparare a conoscere noi stessi, il nostro corpo e le nostre emozioni, in un approccio nuovo rispetto ai media digitali, non dualista – perché sono ormai parte della nostra mente – ma neanche avversivo, né di dipendenza. Siamo in un’epoca che richiede più che mai equilibrio e discernimento, sia a livello individuale che collettivo.
(Articolo di Paolo Subioli, Digital Mindfulness, RED Edizioni)
http://www.treccani.it/enciclopedia/mente-estesa_%28Lessico-del-XXI-Secolo%29/
Mente estesa e Mindfulness
La pratica della presenza mentale è stata introdotta in forma codificata dal dottor Jon Kabat-Zinn alla fine degli anni 70 del secolo scorso, come protocollo per la riduzione dello stress. Il modello della extended mind (mente estesa) è stato sviluppato da Andy Clark e David Chalmers alla fine degli anni 90. L’uso di artefatti esterni a supporto dei processi cognitivi, costituisce un processo ampliato e, nello stesso tempo, non più scindibile.
Il possibile legame tra l’approccio alla vita mentale introdotto dalla Mindfulness e la prospettiva culturale e psico-sociale della mente estesa, sta nel cercare saggezza e consapevolezza non più solo nelle esperienze individuali ma anche nel mondo in cui conduciamo le nostre esistenze.
Una coscienza non solo interna alla mente, ma comprensiva di tutto ciò che ci circonda: corpo, relazioni, ambiente naturale e culturale.
Questo può essere arricchito enormemente attraverso gli strumenti che le nuove tecnologie digitali in rete mettono a disposizione, inclusa anche la realtà virtuale.
E’ in atto una mutazione profonda della partecipazione sociale, che passa attraverso i media caratterizzati da interattività, immersività e connettività permanente e globale.
Il web rappresenta un modello pluralista e democratico, molto bello perché può dar voce a chiunque, ma anche profondamente violento e malato in molte sue componenti.
Ma la rete non è né l’inferno, né il paradiso: è una piazza neutra, ed ognuno sceglie a quale discorso vuole prendere parte e con chi. Come per i libri o i video generalisti, prendiamo quelli che preferiamo e, se graditi, li lasciamo entrare nel quotidiano, nei giudizi, nelle azioni, altrimenti si dimenticano presto e va bene così.
Il fatto che molti possano esprimersi, farsi ascoltare e entrare in pubblico dibattito non pone alriparo dalla presenza di tante assurdità. Vi è però il lato positivo della necessità di essere attenti, scettici, di cercare riferimenti incrociati, di trovare da soli ciò che ci serve.
È una battaglia che si gioca su un piano molto insidioso e la posta in gioco è il recupero della cultura e del suo senso, della dignità del reale, della relazione diretta “corporea”, recupero del senso dialogico e dialettico da persona a persona. La cultura deve poter migliorare la qualità della vita, la propria singolarissima vita, che è anche vita di relazione, vita di affetti, vita politica e di partecipazione. C’è bisogno di persone che sappiano pensare fino in fondo i loro pensieri, che amino studiare, che non sfuggano il contatto con l’altro e che sappiano contrattare le reciproche intolleranze senza odio e paura, perché vogliono edificare nella relazione. È possibile? Io penso di sì.
Il web è solo uno strumento e un ponte, non uno scopo, e infine somiglia a chi sei tu. (dal blog Manuale Inapplicabile).