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La tecnologia digitale nei processi di apprendimento

Molti differenti tipi di tecnologie sono sstati usati negli ambienti educativi: pagine stampate, gesso e lavagna, proiettori a muro, diapositive, proiezioni video. Insieme ad altri dispositivi, continuano a far parte dei processi di insegnamento e di apprendimento. L’uso di tecnologie tradizionali spesso limita le attività a un tempo e uno spazio delimitati. La nascita di nuove forme di tecnologia ha creato un rinnovato interesse per l’uso di supporti all’insegnamento. A causa della loro prevalenza nella società, l’introduzione di nuove tecnologie è opportuna. Molte tecnologie sono largamente usate in quasi tutti i posti di lavoro e ci si aspetta che gli studenti abbiano avuto familiarità con esse già durante gli studi.
Le scuole sono aperte alle innovazioni tecnologiche, così che vecchio e nuovo devono coesistere. Questa coesistenza crea tensioni, e influenzerà l’educazione del XXI secolo. Possiamo porci queste domande: Quale tipo di tecnologie tradizionali avete usato nella vostra scuola?
Internet ha rivoluzionato il mondo delle comunicazioni come mai prima. L’invenzione del telegrafo, telefono, radio e computer hanno segnato i passi per questa nuova integrazione di funzionalità. Molte delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) sono prodotti delle tecnologie informatiche e di rete. I computer sono comunque stati preceduti da antiche tecnologie, come l’abaco e i dispositivi computazionali meccanici della rivoluzione industriale.
Uno dei primi calcolatori, ENIAC, fu usato come arma militare; questa macchina aveva capacità inferiori a quelle di una calcolatrice tascabile. Il primo computer totalmente digitale, lo Z1, fu creato nel 1938 da Konrad Zuse, sette anni prima che fosse creato un linguaggio di programmazione. Lo Z3 fu il primo computer con un programma operativo, fu costruito nel 1941, durante la seconda guerra mondiale. Erano macchine primitive, anche se costavano centinaia di migliaia di dollari.
Le reti di telecomunicazione crearono le basi per Internet e il World Wide Web, quindi possiamo far risalire i loro inizi agli anni ’60. Il primo messaggio in rete fu mandato sulla rete ARPANET dal computer del professore di scienze Leonard Kleinrock, nel laboratorio dell’Università della California (UCLA), Los Angeles. Le reti a commutazione a pacchetto, come ARPANET, Mark I, in UK, Tymnet, Telenet, furono sviluppate tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, usando una varietà di protocolli. Negli anni ’80, Il lavoro di sir Tim Berners-Lee nel Regno Unito, sul World Wide Web, teorizzò il fatto che i linguaggi/protocolli possono collegare ogni documento/ ipertesto in sistemi di lavoro.
Internet ha avuto un impatto rivoluzionario sulla cultura, sul commercio, includendo la nascita di comunicazioni in tempo quasi-reale, come la posta elettronica, la messaggeria istantanea, le chiamate su protocollo Internet (VoIP), le video-chiamate a due vie, i forum di discussione, i social network, i siti di commercio on-line.
Le tecnologie ICT sono sempre più utilizzate e integrate nei processi educativi. L’affermarsi di queste tecnologie nelle attività di insegnamento e di apprendimento ha sollevato importanti questioni. Ad esempio:
Le nuove tecnologie stanno cambiando le classi scolastiche? Stanno mutando le tecniche e le strategie di insegnamento? Le caratteristiche degli studenti sono state modificate?
Le nuove tecnologie hanno portato cambiamenti nella qualità dell’educazione? Nelle teorie dell’apprendimento? Nel successo dell’attività educativa? Nella democratizzazione dell’istruzione?

Effetti dell’ICT e processi di cambiamento
L’integrazione della tecnologia nei processi educativi ha introdotto nuove strade in cui gli insegnanti possono arricchire le attività di insegnamento e apprendimento. Gli insegnanti reagiscono all’uso della tecnologia in classe in modi differenti. Si ritiene che vi siano tre generazioni di insegnanti, in termini dell’uso della tecnologia in classe. Gli studenti stanno giocando un ruolo importante nelle attività scolastiche. Molti hanno familiarità con molte delle tecnologie impiegate nell’ambiente educativo.
Secondo Prensky, molti degli studenti oggi sono nativi digitali, ma i loro insegnanti sono immigrati digitali. L’uso della tecnologia in classe dovrebbe essere considerato appropriato se usato per scopi specifici, nei processi di insegnamento e apprendimento come parte integrante degli obiettivi di apprendimento. L’uso della tecnologia nei processi di apprendimento diventa valido solo quando vengono visti come elementi in un ambiente ben costruito. Pensa a te stesso. Sei un nativo digitale, o un immigrato digitale?
Per incrementare le attività in classe, gli insegnanti fanno uso di lavagne informatizzate, computer e tablet, software di test e misure, LMS-CMS, applicazioni interattive, giochi educativi, ipertesti, ipermedia, applicazioni multimediali.
La prima generazione: vi sono ancora insegnanti che temono l’uso delle tecnologie, tranne quelle più agevoli (lavagne e gesso, testi a stampa).
La seconda generazione: Insegnanti che usano qualche forma di tecnologia durente le presentazioni, anche se non spesso (proiettori a muro, riproduttori audio).
Terza generazione: Alcuni insegnanti massimizzano l’uso di diverse tecnologie, a volte al punto di sovraccaricare le attività in classe.
La crescente applicazione della tecnologia a supporto dell’insegnamento e apprendimento fornisce una base con cui alcuni insegnanti riconsiderano le loro strategie per le attività di insegnamento. Pensa al tuo insegnante preferito. A quale generazione appartiene?
Apprendimento sincrono e asincrono
Grazie a Internet, alle tecnologie informatiche e mobili, ai computer, le nuove tecnologie sono capaci di promuovere attività educative, sia sincrone sia asincrone, non confinate in tempi e spazi limitati.
Cos’è l’apprendimento sincrono? Stesso momento, ma non nello stesso posto. Diverse forme di televisive, digitali, e apprendimento on line in cui gli studenti apprendono da insegnanti, colleghi, studenti in tempo reale, ma non in presenza.
Cos’è l’apprendimento asincrono? Stesso posto, ma non nello stesso momento. Tipicamente applicato a interazioni insegnante-studente, o tra pari, in diversi luoghi, o differenti momenti. Anche l’apprendimento on line può essere asincrono. Lezioni pre-registrate, scambio di e-mail, bacheche di discussione, sistemi di gestione dei corsi che organizzano materiale di studio e relativa corrispondenza, sono tutte considerate forme di apprendimento asincrono.
Le risorse di apprendimento on line usate per supportare l’apprendimento asincrono includono e-mail, liste di distribuzione elettroniche, sistemi di conferenza, bacheche di discussione on line, wiki e blog.
Forme asincrone di comunicazione sono a volte implementate con il supporto di componenti come chat testuale e vocale, e videoconferenza. L’insegnamento faccia-a-faccia è sincrono, asincrono, o entrambi?

Teoria cognitiva dell’apprendimento multimediale
La teoria cognitiva di R.E. Mayer dell’apprendimento multimediale (CTML) incorpora diversi concetti provenienti sia dalla scienza dell’apprendimento sia da quella dell’insegnamento. La filosofia è che il disegno dei corsi di e-learning dovrebbe essere basato su una teoria cognitiva riguardo a come le persone imparano e su ricerche scientificamente valide. I corsi di e-learning dovrebbero essere costruiti alla luce di come la mente apprende e di evidenze sperimentali riguardanti le caratteristiche dell’e-learning che promuovono l’apprendimento migliore.
CTML è supportato dall’estesa ricerca di Mayer, coinvolgente la verifica delle teorie dell’apprendimento, focalizzandosi su situazioni reali. Parole e disegni presentati agli alunni attraverso una presentazione multimediale sono processati attraverso due canali separati, non in conflitto. Parole e immagini sono attivamente selezionati dallo studente dalla memoria sensoriale (attraverso occhi e orecchie) ed entrano nella memoria di lavoro dove sono organizzate in modelli verbali e pittorici. I due modelli sono poi integrati con la conoscenza pregressa richiamata dalla memoria a lungo termine. L’integrazione avviene nella memoria di lavoro, seguendo ogni porzione segmentata dell’istruzione in modalità multimediale.

Influenze della scienza dell’apprendimento
La teoria cognitiva del dual processing è stata descritta per primo da Paivio nel 1986. Essa suggerisce che gli stimoli verbali e visivi sono processati separatamente, ma simultaneamente, nella memoria di lavoro.
La capacità limitata della memoria di lavoro indica che questa memoria può gestire un numero limitato di voci di informazioni alla volta, ciò richiede di scegliere come allocare le risorse cognitive. La teoria del carico cognitivo fu sviluppata da Sweller, che propose l’esistenza di limitazioni nella capacità della memoria di lavoro.
Nel processamento attivo, le persone sono cognitivamente impegnate nell’attribuire un senso agli stimoli presentati nella memoria di lavoro. Quando si compie un apprendimento significativo, le persone sono abili a recuperare le conoscenze recentemente acquisite dalla memoria a lungo termine. Trasferimento vicino e lontano nel tempo.
Teoria del doppio codice
La teoria del doppio codice (DCT) è una teoria generale della mente e della cognizione. Si origina negli anni ’60 per spiegare la potenza degli effetti che l’immaginazione ha sulla memoria. La DCT è una delle teorie più influenti sulla cognizione che è stata applicata direttamente all’educazione. E’ il primo sistematico tentativo scientifico per collegare due tradizioni in filosofia e psicologia: immagine e parola.
La teoria DCT assume che la cognizione coinvolge le attività di due codifiche mentali qualitativamente differenti:
• Codifica verbale, specializzata per il linguaggio in tutte le sue forme
• Codifica non verbale, specializzata con oggetti non linguistici ed eventi in forma di immagini mentali.
I sistemi di codifica sono separati ma interconnessi. Possono operare indipendentemente, in parallelo, ma anche attraverso connessioni. La diversità e la flessibilità della cognizione viene dall’attività entro e tra i codici. La DCT è basata sulla comune assunzione della continuità tra percezione e memoria.
La DCT è quindi multimodale, dal momento che le esperienze verbali e non verbali possono avvenire con differenti modalità sensoriali, includendo la visione, l’ascolto, il tocco ( nel caso del linguaggio) e tutti i cinque sensi (nel caso delle immagini mentali)
Le teorie della memoria di lavoro, che propongono una diversa e specifica modalità di funzionamento della memoria, sono generalmente consistenti con la DCT, anch’essa assume che la memoria a lungo termine è una modalità specifica della memoria.
La DCT assume che la produzione di contributi innati alla cognizione e le differenze individuali sono il risultato dell’interazione tra i geni e l’ambiente. Una applicazione diretta di questa è che le immagini e il linguaggio concreto dovrebbero essere compresi e ricordati meglio dei linguaggi astratti.

Applicazioni ed estensioni della teoria del doppio codice
L’applicazione più produttiva della DCT è stata nell’alfabetizzazione. La teoria offre spiegazioni empiricamente supportate di tutti gli aspetti dell’alfabetizzazione:
1. decodifica
2. comprensione
3. risposta alla lettura
4. composizione scritta.
Un programma di istruzione su larga scala per migliorare la lettura e la comprensione, insegnando agli studenti a visualizzare mentre leggevano testi è stata applicata con successo in istituti scolastici urbani. Un’altra applicazione ha fatto uso dell’immaginazione cinestetica nella comprensione di un testo , mentre veniva letta da un insegnante, adoperando strategie per la focalizzazione dell’idea centrale.
L’uso dell’immaginazione mentale nell’apprendimento di capacità psicomotorie è stato estensivamente studiato. La più ambiziosa estensione della DCT è la sua spiegazione dell’evoluzione della mente. Negli ominidi l’intelligenza è evoluta da una primitiva forma non verbale ad una forma successiva che incorpora il linguaggio. I pensieri verbali e non verbali si sono accordati sinergicamente. Le immagini mentali in memoria rappresentano eventi passati, futuri, possibili o impossibili, in assenza di percezione.
Il linguaggio fornì un sistema assai sofisticato di segni per un pensiero efficiente e per la comunicazione tra gli umani, e in loro stessi. La combinazione di immaginazione e linguaggio è vista come la spinta evolutiva per tutti i progressi umani.
La DCT differisce dalle teorie che assumono che tutte le cognizioni hanno una comune, astratta, codifica, nella forma di schemi di proposizione. Il mentalese degli schemi, o proposizioni, è assunto essere computazionale in natura, costruito nel cervello analogamente a un codice di computer. I proponenti di altre teorie credono che la loro concezione sia più elegante e parsimoniosa. Alcuni aspetti della cognizione sono stati modellati nei computer in modo tale da supportare questi argomenti. Questa sfida resta irrisolta.

La teoria del carico cognitivo
La teoria del carico cognitivo è costruita sul modello largamente accettato del processamento umano dell’informazione. Le tre parti di tale processo sono: la memoria sensomotoria, la memoria di lavoro, al memoria a lungo termine. Ogni giorno veniamo bombardati da informazioni provenienti dai sensi. La memoria sensomotoria filtra molte di queste informazioni, e lascia una impressione dei temi più rilevanti, in modo che possa passare nella memoria di lavoro. L’informazione passa quindi in questo magazzino di memoria, dove viene di volta in volta processata o scartata. La memoria di lavoro contiene da cinque a nove voci (chuncks) di informazione alla volta (vedi regola del 7 più o meno 2 è centrale nella teoria del carico cognitivo).
Quando il cervello processa l’informazione, la categorizza, e la sposta nella memoria a lungo termine, dove è immagazzinata in strutture di conoscenza detti schemi. Vi sono diversi schemi per diversi concetti e comportamenti. Maggiore è la pratica nell’usare questi schemi, minore è lo sforzo per compiere i relativi comportamenti. Questo è chiamato automatismo. Anche gli schemi sono significativi nella teoria del carico cognitivo.
La teoria del carico cognitivo è stata sviluppata da J. Sweller, e fornisce un approccio scientifico al disegno dei materiali per l’apprendimento. Il carico cognitivo è in relazione con la quantità di informazione che la memoria di lavoro può gestire di volta in volta. Data questa capacità limitata, i metodi di addestramento devono evitare di sovraccaricarla con attività addizionali che non contribuiscono direttamente all’apprendimento. La teoria del carico cognitivo ci mostra che la memoria di lavoro può essere ampliata in vari modi:
• Effetto modalità, dato che la mente processa separatamente informazioni visive e uditive. Un testo e un disegno competono l’uno con l’altro.
• Conoscenza prioritaria, dato che la memoria di lavoro tratta un certo schema come una singola voce. Una pratica automatizzata aiuta ad imparare facilmente e senza sforzo.
• Attività di apprendimento, applicata su conoscenze pregresse, si espandono la capacità della memoria di lavoro.
• Pre-training, o competenze precedentemente acquisite da parte dello studente, introdotte in un nuovo argomento. Aiuta a stabilire schemi che estendendo la memoria di lavoro. Ciò significa che è possibile acquisire e comprendere informazioni più complesse.
La teoria del carico cognitivo aiuta a disegnare addestramenti che riducono la domanda di memoria di lavoro degli studenti, in modo da apprendere più efficacemente. Ad esempio, determinando le conoscenze richieste e adattando di conseguenza la presentazione. O anche riducendo lo spazio del problema in parti, e presentando soluzioni divise in parti.
Effetto di riduzione dell’attenzione divisa. Sorgenti multiple di informazioni visive rendono più difficile la creazione di nuovi schemi. Questo effetto è ridotto quando le informazioni visive sono integrate. Ad esempio, incorporando etichette nei diagrammi, piuttosto che ponendole in un box a lato, o rimuovendo ogni sorgente estranea, fonte di rumore.
Suggerimento: Prendere vantaggio dai canali visivo e auditivo nella memoria di lavoro. Un’altra via di superare l’effetto dell’attenzione divisa è di rimpiazzare alcune informazioni visive con informazioni uditive. Questa combinazione riduce il carico cognitivo nella memoria di lavoro, poiché il canale uditivo ha il suo spazio di memoria.

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Cultura digitale

La mente estesa nell’era digitale

Conosciamo poco riguardo alla nostra attività mentale. I primi studi su di essa risalgono alla fine dell’800, ma solo a partire dalla metà del secolo scorso si è ipotizzato che il pensiero sia
un processo (cognitivo) che conduce all’elaborazione degli input ricevuti dall’esterno, anche in relazione alle teorie computazionali per l’elaborazione anche artificialmente dei procedimenti (algoritmi) in grado di produrre conoscenza (Turing).
Successivamente, ha prevalso una modalità di approccio più sistemica allo studio della mente, che ha visto la collaborazione di studiosi di tante discipline diverse, dando vita alle cosiddette neuroscienze. Queste ultime hanno consentito di svelare qualcosa di molto sorprendente, ma al tempo stesso già sotto gli occhi di tutti, ovvero il fatto che la mente non è collocata solo all’interno del cervello. Una parte dei processi cognitivi avviene infatti anche nel corpo (embodied mind), in un rapporto di circolarità e influenza reciproca, cioè dal cervello verso il corpo e dal corpo verso il cervello. Un apporto fondamentale alla mente viene anche da elementi esterni (embedded mind), come ad esempio l’ambiente fisico circostante o il linguaggio, che è un prodotto della cultura. La nostra mente si crea perciò di continuo in un rapporto di interazione tra cervello, corpo e ambiente.
Un modello molto interessante è stato quello sviluppato poi da Andy Clark e David Chalmers alla fine degli anni ’90, i quali hanno parlato di mente estesa (extended mind). La mente estesa è quella dimensione che si verifica nel momento in cui utilizziamo degli strumenti esterni come ausilio a determinati processi cognitivi, come ad esempio il taccuino, la calcolatrice, l’agenda, eccetera. Tale utilizzo costituisce un processo cognitivo nel quale partecipano sia la mente umana sia l’oggetto stesso, i quali compongono un sistema abbinato dove entrambi sono ugualmente indispensabili e attivi. Rimuovere l’oggetto esterno comporterebbe lo stesso danno funzionale che rimuovere la parte di cervello interessata. Se tu mi chiedi Sai che ore sono? e io dopo aver guardato l’orologio rispondo Certo che lo so, sono le 10 e 30, non affermo la verità. Dovrei dire Io e il mio orologio lo sappiamo.
Quando utilizziamo un dispositivo digitale o uno dei servizi che esso veicola, il processo cognitivo avviene grazie a una collaborazione tra cervello e oggetto esterno. Si pensi a una ricerca su Google o alla consultazione delle Google Maps per raggiungere una destinazione. Ormai tutti i media digitali – cioè dispositivi come gli smartphone, i tablet e i computer, ma anche i servizi digitali che essi veicolano, come Facebook, Google, le varie app, eccetera – costituiscono parte integrante della nostra mente. Disconoscerlo, secondo lo stesso Chalmers, costituisce uno sciovinismo del cervello senza fondamento. Senza la ricerca Google o Wikipedia la nostra mente non sarebbe quello che è oggi.
Tutto questo apre delle enormi possibilità, specie se si tiene conto della componente collaborativa del collegamento in rete, che dà vita a quella che Derrick de Kerckhove chiama mente accresciuta, una dimensione nuova e più potente della mente umana.

Allo stesso tempo si creano enormi problemi. Il più immediato di essi è la mortificazione della nostra dimensione corporea. A forza di stare chini sui nostri dispositivi assumiamo posizioni dannose per l’organismo e sacrifichiamo l’attività fisica. Già questo porta molta sofferenza, come tutti abbiamo sperimentato. Un’umanità più intelligente ma menomata fisicamente non è un buon compromesso, per questo inizio millennio. Essere costantemente online ci porta anche lontano dal qui e ora, allontanandoci dal contesto nel quale ci troviamo. Mentre siamo fisicamente accanto alla persona amata, la nostra mente è altrove, come alienata dall’unico contesto in grado di darci benessere, quello delle persone con le quali possiamo avere un contatto fisico.
La presenza costante degli smartphone ci allontana inoltre dalla dimensione della conversazione, la forma di comunicazione umana più ricca. Una studiosa come Sherry Turkle, del MIT, ha evidenziato come il problema della mancanza di conversazione diretta provochi una sorta di analfabetismo emotivo tra i ragazzi cresciuti nell’era digitale. Questi ultimi non conoscono il lessico delle emozioni che passa attraverso il linguaggio parlato e la relativa mimica, perché sanno comunicare solo con mezzi asincroni. Indubbiamente anche questo è un prezzo da pagare molto alto, in questo passaggio generazionale.
I cahiers de doléances che si vanno riempiendo con i problemi legati a questa fase di digitalizzazione delle nostre vite comprendono molti altri aspetti. Nicholas Carr ha evidenziato il carattere taylorista del sistema di ricerca di Google, che ci spinge a fare il massimo possibile di navigazioni di pagine nell’unità di tempo, proprio come avveniva nella fabbrica fordista, ma questo ci spinge inevitabilmente a un approccio più superficiale alla conoscenza. Una superficialità alla quale fa da sponda Facebook, dove l’informazione e la conoscenza vengono dispensate in pillole di brevi video, citazioni, immagini.
Ciò comporta un ulteriore problema: quello dell’iperattivismo che ci viene richiesto, in una condizione simile a quella dell’operaio Charlot nel film Tempi moderni (1936), che non riusciva a stare dietro al ritmo impostogli dal nastro trasportatore. Il web, con i suoi hyperlinks, nasce come tecnologia che spinge all’azione, ma oggi la presenza di notifiche e richieste d’azione è soverchiante nella nostra vita quotidiana e ci toglie il tempo quasi di respirare. L’indigestione di informazioni che ne consegue non è benefica per la nostra salute mentale. Nello streaming di Facebook si mescolano i contenuti (e le emozioni) più disparati, in un’orgia di input che ci rende più infelici e più inclini alla depressione, come hanno dimostrato diverse ricerche.
Ci siamo ritrovati in così breve tempo in questa nuova dimensione – dominata da un’identità digitale che in molti casi ha il sopravvento su quella reale – che facciamo sempre più fatica a distinguere il concreto dal digitale, la verità dalla menzogna, il fondamentale dal superfluo. Tutto è sempre più trasparente, il che a volte è un bene, come quando vengono resi pubblici i bilanci da parte di chi ci governa, a volte è un male, come quando l’intimità delle persone più fragili diventa di dominio pubblico, riscuotendo molta più audience rispetto a oggetti dell’attenzione noiosi come i bilanci.

Tutto questo per dire che oggi sappiamo solo che sta avvenendo un passaggio molto importante, che questo passaggio implica una trasformazione della nostra mente e che esso potrebbe portarci a vivere una vita migliore o peggiore. Qui sta veramente la differenza, perché in quanto esseri umani abbiamo l’aspirazione di fondo a essere felici, non a disporre di strumenti sempre più sofisticati.
Quali sono i fattori che determineranno esiti positivi o negativi di questa evoluzione? Cosa fa dell’invenzione tecnologica un’innovazione con ricadute positive sulla nostra felicità? Vivremo in una nuova dimensione dominata dallo spirito collaborativo e dall’economia del dono o si moltiplicheranno sempre di più gli episodi di linciaggio online come quelli a cui assistiamo in questo tempi?
La risposta sta in un mix di consapevolezza individuale e collettiva, che io chiamo Digital Mindfulness. […] Se imparassimo l’alfabeto essenziale dell’intelligenza emotiva per saper distinguere cosa stiamo provando ora, sapremmo difenderci meglio dal peso di tanti input che ci arrivano di continuo dai nostri schermi. Se la trasparenza e la memoria del web fossero per noi uno stimolo a ponderare bene i nostri comportamenti, i media digitali costituirebbero per noi uno stimolo virtuoso. Se in una giornata passata interamente online potessimo ogni tanto riportare l’attenzione al nostro corpo, non perderemmo il contatto con ciò che siamo veramente. E così via.
Dobbiamo imparare a conoscere noi stessi, il nostro corpo e le nostre emozioni, in un approccio nuovo rispetto ai media digitali, non dualista – perché sono ormai parte della nostra mente – ma neanche avversivo, né di dipendenza. Siamo in un’epoca che richiede più che mai equilibrio e discernimento, sia a livello individuale che collettivo.

(Articolo di Paolo Subioli, Digital Mindfulness, RED Edizioni)

http://www.treccani.it/enciclopedia/mente-estesa_%28Lessico-del-XXI-Secolo%29/

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Il lato nascosto della rete

E’ in atto una mutazione profonda della partecipazione sociale, che passa attraverso i media caratterizzati da interattività, immersività e connettività permanente e globale.
Il web rappresenta un modello pluralista e democratico, molto bello perché può dar voce a chiunque, ma anche profondamente violento e malato in molte sue componenti.
Ma la rete non è né l’inferno, né il paradiso: è una piazza neutra, ed ognuno sceglie a quale discorso vuole prendere parte e con chi. Come per i libri o i video generalisti, prendiamo quelli che preferiamo e, se graditi, li lasciamo entrare nel quotidiano, nei giudizi, nelle azioni, altrimenti si dimenticano presto e va bene così.

Il fatto che molti possano esprimersi, farsi ascoltare e entrare in pubblico dibattito non pone alriparo dalla presenza di tante assurdità. Vi è però il lato positivo della necessità di essere attenti, scettici, di cercare riferimenti incrociati, di trovare da soli ciò che ci serve.
È una battaglia che si gioca su un piano molto insidioso e la posta in gioco è il recupero della cultura e del suo senso, della dignità del reale, della relazione diretta “corporea”, recupero del senso dialogico e dialettico da persona a persona. La cultura deve poter migliorare la qualità della vita, la propria singolarissima vita, che è anche vita di relazione, vita di affetti, vita politica e di partecipazione. C’è bisogno di persone che sappiano pensare fino in fondo i loro pensieri, che amino studiare, che non sfuggano il contatto con l’altro e che sappiano contrattare le reciproche intolleranze senza odio e paura, perché vogliono edificare nella relazione. È possibile? Io penso di sì.
Il web è solo uno strumento e un ponte, non uno scopo, e infine somiglia a chi sei tu.
(dal blog Manuale Inapplicabile).