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La mente estesa nell’era digitale

Conosciamo poco riguardo alla nostra attività mentale. I primi studi su di essa risalgono alla fine dell’800, ma solo a partire dalla metà del secolo scorso si è ipotizzato che il pensiero sia
un processo (cognitivo) che conduce all’elaborazione degli input ricevuti dall’esterno, anche in relazione alle teorie computazionali per l’elaborazione anche artificialmente dei procedimenti (algoritmi) in grado di produrre conoscenza (Turing).
Successivamente, ha prevalso una modalità di approccio più sistemica allo studio della mente, che ha visto la collaborazione di studiosi di tante discipline diverse, dando vita alle cosiddette neuroscienze. Queste ultime hanno consentito di svelare qualcosa di molto sorprendente, ma al tempo stesso già sotto gli occhi di tutti, ovvero il fatto che la mente non è collocata solo all’interno del cervello. Una parte dei processi cognitivi avviene infatti anche nel corpo (embodied mind), in un rapporto di circolarità e influenza reciproca, cioè dal cervello verso il corpo e dal corpo verso il cervello. Un apporto fondamentale alla mente viene anche da elementi esterni (embedded mind), come ad esempio l’ambiente fisico circostante o il linguaggio, che è un prodotto della cultura. La nostra mente si crea perciò di continuo in un rapporto di interazione tra cervello, corpo e ambiente.
Un modello molto interessante è stato quello sviluppato poi da Andy Clark e David Chalmers alla fine degli anni ’90, i quali hanno parlato di mente estesa (extended mind). La mente estesa è quella dimensione che si verifica nel momento in cui utilizziamo degli strumenti esterni come ausilio a determinati processi cognitivi, come ad esempio il taccuino, la calcolatrice, l’agenda, eccetera. Tale utilizzo costituisce un processo cognitivo nel quale partecipano sia la mente umana sia l’oggetto stesso, i quali compongono un sistema abbinato dove entrambi sono ugualmente indispensabili e attivi. Rimuovere l’oggetto esterno comporterebbe lo stesso danno funzionale che rimuovere la parte di cervello interessata. Se tu mi chiedi Sai che ore sono? e io dopo aver guardato l’orologio rispondo Certo che lo so, sono le 10 e 30, non affermo la verità. Dovrei dire Io e il mio orologio lo sappiamo.
Quando utilizziamo un dispositivo digitale o uno dei servizi che esso veicola, il processo cognitivo avviene grazie a una collaborazione tra cervello e oggetto esterno. Si pensi a una ricerca su Google o alla consultazione delle Google Maps per raggiungere una destinazione. Ormai tutti i media digitali – cioè dispositivi come gli smartphone, i tablet e i computer, ma anche i servizi digitali che essi veicolano, come Facebook, Google, le varie app, eccetera – costituiscono parte integrante della nostra mente. Disconoscerlo, secondo lo stesso Chalmers, costituisce uno sciovinismo del cervello senza fondamento. Senza la ricerca Google o Wikipedia la nostra mente non sarebbe quello che è oggi.
Tutto questo apre delle enormi possibilità, specie se si tiene conto della componente collaborativa del collegamento in rete, che dà vita a quella che Derrick de Kerckhove chiama mente accresciuta, una dimensione nuova e più potente della mente umana.

Allo stesso tempo si creano enormi problemi. Il più immediato di essi è la mortificazione della nostra dimensione corporea. A forza di stare chini sui nostri dispositivi assumiamo posizioni dannose per l’organismo e sacrifichiamo l’attività fisica. Già questo porta molta sofferenza, come tutti abbiamo sperimentato. Un’umanità più intelligente ma menomata fisicamente non è un buon compromesso, per questo inizio millennio. Essere costantemente online ci porta anche lontano dal qui e ora, allontanandoci dal contesto nel quale ci troviamo. Mentre siamo fisicamente accanto alla persona amata, la nostra mente è altrove, come alienata dall’unico contesto in grado di darci benessere, quello delle persone con le quali possiamo avere un contatto fisico.
La presenza costante degli smartphone ci allontana inoltre dalla dimensione della conversazione, la forma di comunicazione umana più ricca. Una studiosa come Sherry Turkle, del MIT, ha evidenziato come il problema della mancanza di conversazione diretta provochi una sorta di analfabetismo emotivo tra i ragazzi cresciuti nell’era digitale. Questi ultimi non conoscono il lessico delle emozioni che passa attraverso il linguaggio parlato e la relativa mimica, perché sanno comunicare solo con mezzi asincroni. Indubbiamente anche questo è un prezzo da pagare molto alto, in questo passaggio generazionale.
I cahiers de doléances che si vanno riempiendo con i problemi legati a questa fase di digitalizzazione delle nostre vite comprendono molti altri aspetti. Nicholas Carr ha evidenziato il carattere taylorista del sistema di ricerca di Google, che ci spinge a fare il massimo possibile di navigazioni di pagine nell’unità di tempo, proprio come avveniva nella fabbrica fordista, ma questo ci spinge inevitabilmente a un approccio più superficiale alla conoscenza. Una superficialità alla quale fa da sponda Facebook, dove l’informazione e la conoscenza vengono dispensate in pillole di brevi video, citazioni, immagini.
Ciò comporta un ulteriore problema: quello dell’iperattivismo che ci viene richiesto, in una condizione simile a quella dell’operaio Charlot nel film Tempi moderni (1936), che non riusciva a stare dietro al ritmo impostogli dal nastro trasportatore. Il web, con i suoi hyperlinks, nasce come tecnologia che spinge all’azione, ma oggi la presenza di notifiche e richieste d’azione è soverchiante nella nostra vita quotidiana e ci toglie il tempo quasi di respirare. L’indigestione di informazioni che ne consegue non è benefica per la nostra salute mentale. Nello streaming di Facebook si mescolano i contenuti (e le emozioni) più disparati, in un’orgia di input che ci rende più infelici e più inclini alla depressione, come hanno dimostrato diverse ricerche.
Ci siamo ritrovati in così breve tempo in questa nuova dimensione – dominata da un’identità digitale che in molti casi ha il sopravvento su quella reale – che facciamo sempre più fatica a distinguere il concreto dal digitale, la verità dalla menzogna, il fondamentale dal superfluo. Tutto è sempre più trasparente, il che a volte è un bene, come quando vengono resi pubblici i bilanci da parte di chi ci governa, a volte è un male, come quando l’intimità delle persone più fragili diventa di dominio pubblico, riscuotendo molta più audience rispetto a oggetti dell’attenzione noiosi come i bilanci.

Tutto questo per dire che oggi sappiamo solo che sta avvenendo un passaggio molto importante, che questo passaggio implica una trasformazione della nostra mente e che esso potrebbe portarci a vivere una vita migliore o peggiore. Qui sta veramente la differenza, perché in quanto esseri umani abbiamo l’aspirazione di fondo a essere felici, non a disporre di strumenti sempre più sofisticati.
Quali sono i fattori che determineranno esiti positivi o negativi di questa evoluzione? Cosa fa dell’invenzione tecnologica un’innovazione con ricadute positive sulla nostra felicità? Vivremo in una nuova dimensione dominata dallo spirito collaborativo e dall’economia del dono o si moltiplicheranno sempre di più gli episodi di linciaggio online come quelli a cui assistiamo in questo tempi?
La risposta sta in un mix di consapevolezza individuale e collettiva, che io chiamo Digital Mindfulness. […] Se imparassimo l’alfabeto essenziale dell’intelligenza emotiva per saper distinguere cosa stiamo provando ora, sapremmo difenderci meglio dal peso di tanti input che ci arrivano di continuo dai nostri schermi. Se la trasparenza e la memoria del web fossero per noi uno stimolo a ponderare bene i nostri comportamenti, i media digitali costituirebbero per noi uno stimolo virtuoso. Se in una giornata passata interamente online potessimo ogni tanto riportare l’attenzione al nostro corpo, non perderemmo il contatto con ciò che siamo veramente. E così via.
Dobbiamo imparare a conoscere noi stessi, il nostro corpo e le nostre emozioni, in un approccio nuovo rispetto ai media digitali, non dualista – perché sono ormai parte della nostra mente – ma neanche avversivo, né di dipendenza. Siamo in un’epoca che richiede più che mai equilibrio e discernimento, sia a livello individuale che collettivo.

(Articolo di Paolo Subioli, Digital Mindfulness, RED Edizioni)

http://www.treccani.it/enciclopedia/mente-estesa_%28Lessico-del-XXI-Secolo%29/

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Il lato nascosto della rete

E’ in atto una mutazione profonda della partecipazione sociale, che passa attraverso i media caratterizzati da interattività, immersività e connettività permanente e globale.
Il web rappresenta un modello pluralista e democratico, molto bello perché può dar voce a chiunque, ma anche profondamente violento e malato in molte sue componenti.
Ma la rete non è né l’inferno, né il paradiso: è una piazza neutra, ed ognuno sceglie a quale discorso vuole prendere parte e con chi. Come per i libri o i video generalisti, prendiamo quelli che preferiamo e, se graditi, li lasciamo entrare nel quotidiano, nei giudizi, nelle azioni, altrimenti si dimenticano presto e va bene così.

Il fatto che molti possano esprimersi, farsi ascoltare e entrare in pubblico dibattito non pone alriparo dalla presenza di tante assurdità. Vi è però il lato positivo della necessità di essere attenti, scettici, di cercare riferimenti incrociati, di trovare da soli ciò che ci serve.
È una battaglia che si gioca su un piano molto insidioso e la posta in gioco è il recupero della cultura e del suo senso, della dignità del reale, della relazione diretta “corporea”, recupero del senso dialogico e dialettico da persona a persona. La cultura deve poter migliorare la qualità della vita, la propria singolarissima vita, che è anche vita di relazione, vita di affetti, vita politica e di partecipazione. C’è bisogno di persone che sappiano pensare fino in fondo i loro pensieri, che amino studiare, che non sfuggano il contatto con l’altro e che sappiano contrattare le reciproche intolleranze senza odio e paura, perché vogliono edificare nella relazione. È possibile? Io penso di sì.
Il web è solo uno strumento e un ponte, non uno scopo, e infine somiglia a chi sei tu.
(dal blog Manuale Inapplicabile).